Autore Redazione
mercoledì
26 Aprile 2017
01:12
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Politica - Valenza

Dal talento alla semplice esecuzione: l’identità smarrita di Valenza

Valenza dagli anni '80 ha perso imprenditorialità. Il rischio è che la città perda progressivamente talento e storia.
Dal talento alla semplice esecuzione: l’identità smarrita di Valenza

VALENZA – Valenza ha perso la sua identità e non sarà facile trovarla. La frase suona come un pugno nello stomaco ma affrontare il tema può essere un primo passo per cercare di ragionare su una città che ha ancora negli occhi uno scintillante passato, pur vivendo un presente opaco. Le considerazioni partono da Antonio Russo, 59 anni, un designer, o come ama descriversi un “creativo“. Per anni manager di una azienda libanese, cresciuto nel mondo dell’arte orafa, innamorato del bello e della fantasia valenzana ma oggi costretto a casa “perché troppo vecchio – sorride – o troppo costoso per la professionalità maturata nel tempo“.
La sua competenza, quantomeno, si può spendere per raccontare una città cambiata radicalmente e per provare a imbastire una discussione che induca a riflettere: “Purtroppo la globalizzazione, cui non sono contrario, ha sconvolto il tessuto connettivo di questa cittadina. La sua peculiarità era l’essere un mondo a sé rispetto alla realtà italiana, partendo dai giovani e dal loro livello professionale. In qualunque luogo ti recassi, quando dicevi Valenza, si associava quel nome alla alta gioielleria, alla gioielleria di qualità. Questa realtà felice si è snaturata negli anni ’80. Le grosse aziende, insieme a quella che era la giunta comunale del periodo e a chi è venuto dopo, hanno creato le condizioni perché Valenza divenisse quello che è oggi. La politica di allora era che la città dovesse essere blindata. Tant’è che tutte le aziende più importanti, pur lavorando qui, avevano tutti gli uffici a Milano e i clienti si ricevevano lì. Quei pochi che venivano in città quando arrivavano trovavano l’Eldorado, un mondo sconosciuto.”

Valenza sul lungo quindi ha progressivamente scontato la sua chiusura forzata: “In passato solo il 25% della città produceva come contoterzista, il restante aveva un proprio campionario e usciva dalla città per creare lavoro, andava in giro per il mondo. In questi 30-40 anni la situazione si è capovolta. La crisi che c’è stata, gli interessi diversi, tutto questo ha portato oggi a un 70% che produce per i grandi marchi e il restante rappresentato invece da piccoli e medi imprenditori, gli unici a percorrere la strada che hanno sempre intrapreso. Il problema è che quando l’azienda ‘x’ fa produrre ad altre realtà, e cioè a realtà satelliti, se decide di chiudere i rubinetti o di interrompere la produzione allora obbliga anche tutto il resto a fermarsi. Ci sono aziende nate e morte su questo principio: vengono promesse montagne di lavoro come contoterzisti ma improvvisamente queste realtà poi si fermano a guardare il soffitto. Questa è la base che ha portato a snaturare questa città“.

Le soluzioni non sono facili secondo Antonio: “Le azioni sarebbero tante e impegnative e ormai occorre pensare a un percorso medio-lungo. La formazione è una strada giusta, per esempio.” Ma anche questo ambito non è esente da problemi: “Io mi metto nei panni di un ragazzo giovane di oggi. Quando entra in un’azienda gli insegnano a mettere in forma un anello, mettendolo su un mandrino e poi deve passarlo per la successiva lavorazione. Il problema è che sa fare solamente quello. Hanno reso settoriale un mestiere che invece era lineare“.

L’artigianalità valenzana in molti casi è scivolata in una più prosaica fase banalmente tecnica. “Ci sono realtà in cui si continua il lavoro lineare, c’è molta creatività ma molte aziende sono invece strutturate in maniera decisamente settoriale. Se io ho la completa padronanza del mio mestiere ho la capacità di base per investire anche su me stesso. È da lì che nasce la pianta, da lì che si cresce. Se io so solo saldare, o mandrinare un anello non ho possibilità di crescere, non ho possibilità di avere ambizioni”.

“L’idea che si aveva fuori dalla città di Valenza era già in essere – ha concluso Antonio Russo. Noi avevamo una scuola d’arte perfetta: ti dava delle basi ottime e la possibilità di stimolare la tua creatività. Tantissimi studenti ad esempio, finita la scuola, facevano i disegni e andavano a venderli nelle fabbriche a Valenza e fuori. Negli anni ’70 eravamo 150 studenti e 70-80 arrivavano da fuori. La strada era già aperta e andava solo percorsa. Oggi è fondamentale recuperare l’artigianalità di questa città. Bisognerebbe lavorare dalla base, ricreare un polo di attrazione per i giovani, far fare stage nelle aziende e permettere loro di tornare a essere indipendenti come accadeva una volta senza essere soggetti agli umori del mercato o dei grossi imprenditori che decidono del loro futuro.”

Su tutto questo occorrerebbe ragionare e confrontarsi con schiettezza e coraggio. Per non perdere un patrimonio di decenni. Aspettiamo anche le vostre considerazioni.

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