Autore Redazione
domenica
5 Marzo 2017
11:38
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Eventi - Casale Monferrato

La recensione di “Che fine ha fatto il piccolo John?” ai Crepuscoli

La recensione di “Che fine ha fatto il piccolo John?” ai Crepuscoli

CASALE MONFERRATO – Un film cult rivisitato e svolto in derivazioni profonde e oscure.

Sabato 4 marzo all’Auditorium Santa Chiara, per la rassegna I Crepuscoli, organizzata e diretta dall’Associazione Nuovo Palcoscenico, la Compagnia Teatro delle Forchette di Forlì, già apprezzata dal pubblico di Casale, ha presentato “Che fine ha fatto il piccolo John?”, per la regia di Massimiliano Bolcioni.

Si tratta della rilettura di “Che fine ha fatto Baby Jane?”, romanzo scritto da Henry Farrell nel 1960 e poi film diretto da Robert Aldrich nel 1962 con Bette Davis e Joan Crawford. Nel testo originario due sorelle, un tempo belle e famose, vivono insieme odiandosi sino ad un tragico finale. La prima, Jane,  è un’ex enfant prodige poi cresciuta, dimenticata e scivolata nella pazzia; la seconda, divenuta celebre in età adulta, è paralizzata per un incidente causato forse dalla sorella invidiosa.

Massimiliano Bolcioni volge il dramma al maschile, mantenendo il rancore, lo stile gotico-noir e derivando nuovi significati. Jane è stata una bimba prodigio, ma è un uomo travestito da bambina, durante l’infanzia, dalla madre, per avere successo nello spettacolo. Il passare del tempo e l’impossibilità di mantenere il ruolo femminile genera la frustrazione, il declino e la follia, cui si aggiunge il disagio nel suo stesso corpo. Il dramma non è tanto la vecchiaia, che comunque c’è ed è evidente, ma proprio il ruolo che sopravvive alla persona e crea una dicotomia inesorabile, ovvero la tragedia in senso classico.

Si respira aria di prigionia, mentre il rumore onirico del mare, all’inizio e alla fine, è un contrasto stridente. Sulla scena una divisione di più stanze attraverso una stilizzazione e l’accensione e spegnimento continui delle tante abat jour rétro, che suggeriscono il passaggio da un ambiente all’altro e il bisogno di luce-attenzione-fama dei protagonisti.  Sin dall’inizio una musica tetra (di Alexander Cimini) non lascia tregua, calcando gli stilemi dello psicodramma più cupo.

Antonio Sotgia è John, il centro ansiogeno su cui ruota una vicenda psicotica e angosciosa. La sua interpretazione è allucinata, con la sola presenza genera un incubo che si tinge di grottesco quando, en travesti, canta, con l’accompagnamento di un pianista assoldato (Enrico Monti), le canzoncine infantili che gli diedero il successo. Al centro di una tela di ragno, in un’atmosfera in cui si sente odore di chiuso, sta Blake Hudson (Stefano Naldi), che, nel taglio registico di Bolcioni, appare, sino al finale che ribalta il gioco di odio-follia, una vittima rassegnata. Non facile il compito di Naldi, che convince  pur costretto ad un basso profilo di fronte alla follia dominante di John/Sotgia.   L’unica altra presenza nella casa è la domestica-amica Edna (Alice Liverani), della quale non è subito intuibile il ruolo per la scelta poco indicativa dell’abbigliamento particolarmente elegante.

L’allestimento è originale e coraggioso, poiché rinuncia alla forza del testo originario che verte sulla bellezza e sulla rivalità femminile, cliché tuttora radicato. Emerge un odio maschile che prescinde dall’omosessualità, pur partendo da un bagaglio di immagini camp, per scavare nell’atavico, ovvero in quello che non si può essere. C’è un senso di superiore fatalità che può consumarsi solo nel sangue e, come nella tragedia greca, la violenza avviene al buio, in una sequenza di scuri tempestivi che si susseguono, durante i quali si ascolta impietriti.

Una prova attoriale di ottimo livello per i protagonisti e una versione del testo che apre nuovi spiragli, rinunciando ad alcuni aspetti e sdoganando altre inquietudini.

Molti minuti di applausi e ripetute chiamate degli interpreti sul palco da parte del pubblico dei Crespuscoli.

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