Autore Redazione
martedì
31 Agosto 2021
12:09
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Cronaca - Eventi - Piemonte

Ricordare la Rivoluzione. Recensione di Ottantanove ad AstiTeatro

Ieri un successo la prima regionale del nuovo lavoro di Elvira Frosini e Daniele Timpano, in scena con Marco Cavalcoli. Oggi AstiTeatro si chiude con la replica della performance “Architettura della disobbedienza” e con “Shakespearology” con Woody Neri
Ricordare la Rivoluzione. Recensione di Ottantanove ad AstiTeatro

ASTI – Inizia con le luci della sala del teatro Alfieri accese, con un silenzio e un faccia a faccia persino imbarazzanti con gli spettatori, “Ottantanove”, il nuovo lavoro di Elvira Frosini e Daniele Timpano, in scena con Marco Cavalcoli. Ieri, domenica 30 agosto, lo spettacolo prodotto dal Teatro Metastasio è stato presentato in prima regionale al festival AstiTeatro e ha confermato le aspettative del pubblico astigiano, che ben conosce la compagnia romana e il suo stile capace di scavare in modo profondo e dissacrante nel passato alla luce del presente. AstiTeatro si conclude oggi, martedì 31 agosto, con la performance “Architettura della disobbedienza”, ideata da Francesco Fassone e da lui messa in scena con Emiliano Bronzino e Maria José Revert, e con “Shakespearology”, un one man show con Woody Neri che dà voce al Bardo in persona. Qui il programma di oggi

E’ Marco Cavalcoli che, dalla platea dove è seduto come uno spettatore, inizia a parlare delle rivoluzioni che hanno portato al concetto contemporaneo dei diritti. Rivoluzioni sempre contro lo stato, la chiesa, le ingiustizie e le divisioni, la cui eredità ha segnato epoche ed è stigmatizzata in costituzioni illuminate, ma, in fondo, vuote e disattese. “Ottantanove” verte proprio sulla rivoluzione e sulla galassia letteraria, teatrale, popolare e immaginifica che la accompagna, rimanda al rivoluzionario 1789 francese, ma anche al 1989, data del crollo del muro di Berlino, momento epocale che segna l’inizio della contemporaneità. Le immagini del passato sono in “bianco e nero, come fotografie antiche…un mondo perduto”, come gli abiti dei protagonisti, e i ricordi sono sbiaditi come le enormi bandiere francesi che delimitano la scena. Così si crea una singolare contrapposizione tra fermento collettivo antico e immobilismo qualunquista odierno, a fronte di istanze e problemi che si ripresentano in ogni epoca. Il lavoro di ricerca di Frosini e Timpano è come sempre sorprendente, comprende fonti di ogni genere e declina il tutto passando dalla gestualità forsennata dello sketch alla drammaticità, dalle coreografie paradossali e ilari alla disanima di fronte al crollo delle idee. Così sfila il mondo intellettuale con la descrizione di Hugo della Convenzione francese, tenutasi nel teatro reale che diventa teatro della rivoluzione, con l’assioma di Rousseau, per cui “il teatro è falsità”, e con l’elenco delle innumerevoli opere teatrali di epoca rivoluzionaria, ormai dimenticate, che facevano del teatro un’opera di educazione popolare. Ma rientra anche, con tutte le sue inesattezze ben sottolineate, la Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi, con la spiegazione della nascita del termine Balilla. Qui la memoria non è solo collettiva, ma anche individuale, ben presente in un’edizione del libro originale, costata diciottomila lire e conservata come cimelio di un’età ingenua e tradita, cui Timpano dà voce in modo candidamente irresistibile. “Non dobbiamo fare la rivoluzione, solo ricordarla” e Marco Cavalcoli, in una corsa, il cui ritmo è scandito da movimenti sempre più forsennati, ripresi dai due colleghi in scena, rievoca tutti i passaggi dalla presa della Bastiglia in poi. Il ricordo è anche paragone e appare il qualunquismo, nel quale è facile riconoscere il contemporaneo. “Me ne infischio di questi movimenti di popolo…credo solo in me stesso”, dice il Marat della pièce “Marat-Sade” di Peter Weiss e “La società non esiste”, ha detto Margaret Thatcher. Qui sta l’individualismo cinico e disilluso che non ricorda e che, se scende in piazza, è per “vedere quelli che scendono in piazza”. Perché le bandiere sono sbiadite, perché in fondo la rivoluzione qui da noi non c’è mai stata e perché l’albero della libertà è una piantina in un vasetto, riponibile un po’ ovunque e minimale elemento di scenografia. Non resta che rivestire i panni dei nobili settecenteschi, ormai “illuminati da una luce totalitaria che ci ha accecato”.

Frosini e Timpano hanno la capacità di organizzare tanto materiale e tanti spunti alla luce di una prospettiva originale, creando un continuum che non racconta una storia, ma crea un quadro i cui tratti sono la complicità e la perfetta intesa reciproca. Al tono ingenuo, ferito dalla disillusione, di Timpano, si accompagna una Frosini irresistibile nell’enumerazione a passo di danza dei francesismi entrati nel lessico italiano, ma anche trait d’union di riflessione disincantata. Si amalgama a loro Marco Cavalcoli, scintilla iniziale dello spettacolo e poi subito co-protagonista, che, in coppia con Timpano, regala dei momenti di coreografia gustosissima, quasi clownesca. Colpisce la varietà di stili che aderiscono o si discostano completamente dai contenuti narrati. Il risultato è una destabilizzazione insolita e attrattiva, che interrompe bruscamente un registro per passare ad un altro opposto, affermando e negando contenuti e forme in rapida successione. Tanti applausi finali per una compagnia che conferma la sua originalità assoluta e la sua capacità di parlare in modo disilluso e pungente del passato che rivela il presente.

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