Autore Redazione
mercoledì
2 Marzo 2022
05:42
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Cronaca - Casale Monferrato

Ucraina, il preparatore casalese dello Shakhtar: “Gli spari, i saluti a chi è rimasto, la partenza col coprifuoco”

Ucraina, il preparatore casalese dello Shakhtar: “Gli spari, i saluti a chi è rimasto, la partenza col coprifuoco”

CASALE – Anche una gioia immensa come il ritorno nella sua Casale è stata mitigata da un velo di tristezza”. Ai microfoni di Radio Gold il monferrino Agostino Tibaudi ha raccontato i suoi ultimi giorni in Ucraina, sotto le bombe. Preparatore atletico di grande esperienza a livello nazionale e internazionale, Tibaudi fa parte dello staff di Roberto De Zerbi allo Shakhtar Donetsk, tornato in Italia lunedì, al termine di un viaggio durato più di 24 ore e dopo quattro giorni difficili, vissuti all’Opera Hotel di Kiev, la città al centro del conflitto scatenato dalla Russia. “Anche qui, a casa, i momenti belli sono attenuati dal pensiero che, inevitabile, si concentra su quei ragazzi ucraini della squadra rimasti a Kiev e che potrebbero essere chiamati alle armi in qualsiasi momento. Vedere quella città e tutta l’Ucraina martoriate così mi ha ferito profondamente, oggi non riesco a essere completamente felice”.

Tibaudi ha ripercorso i tanti giorni difficili vissuti a stretto contatto coi ragazzi della squadra protagonista del campionato ucraino. Tutto lo staff del tecnico ex Sassuolo ha infatti voluto lasciare Kiev solo dopo l’ufficialità dello stop al campionato e quando anche gli altri ragazzi stranieri del club arancione, composto da molti elementi brasiliani, erano ripartiti verso il Sud America: “Anche se avessimo voluto, comunque, non avremmo potuto farlo nei giorni precedenti. Subito dopo lo scoppio della guerra sarebbe stato impossibile andare via. Ma noi non volevamo” ha sottolineato Tibaudi “l’opzione del ritorno era percorribile, per ognuno di noi, prima che il conflitto scoppiasse ma noi eravamo lì per lavorare. Da mesi si percepiva che la situazione era molto tesa. Tutto lo staff è però rimasto in Ucraina perché facciamo parte di una squadra. All’inizio ci era stato detto che avremmo giocato delle gare, quando poi si è capito che il campionato si sarebbe fermato eravamo però tutti nell’albergo che, come ogni settimana, ci ospitava durante i ritiri casalinghi. A quel punto non abbiamo voluto lasciare soli i nostri calciatori. Nella squadra ci sono molti ragazzi stranieri che vedevano in noi una sorta di guida. Abbiamo cercato di aiutarli. Perché lo abbiamo fatto? Per chi ha praticato uno sport di squadra è più semplice comprendere la nostra scelta: in uno spogliatoio si instaurano legami particolari, le cose in una squadra funzionano quando tutti la pensano allo stesso modo e ogni componente si impegna per raggiungere un obiettivo comune. Noi abbiamo fatto questo: non eravamo eroi, pazzi o sconsiderati. Ci siamo comportati come abbiamo sempre fatto, come una squadra”. 

Tibaudi ha poi raccontato il complicato viaggio di ritorno: “I momenti più difficili sono stati i primi tre minuti, il percorrere il breve tratto di strada che divideva l’hotel dalla stazione. Eravamo scortati da un mezzo militare ma c’era il coprifuoco. Chiunque fosse stato sorpreso per strada sarebbe stato considerato un sabotatore russo, una situazione difficilissima e molto delicata. Eravamo divisi in tre macchine, precedute dalla scorta ma è facile immaginare cosa provavamo. Mai mi sarei immaginato nella vita di affrontare una situazione simile. Anche il resto del viaggio è stato vissuto con una continua apprensione: il treno, ad esempio, continuava a cambiare tragitto per evitare di attraversare zone dove si stava combattendo. Per fortuna, però, non ci siamo mai trovati in mezzo a scontri”. 

Impossibile, per Tibaudi, non tornare con la mente a quei giorni, quando il dramma della guerra si consumava a poche centinaia di metri: Si percepivano gli spari, alcuni in lontananza, altri molto vicini. L’hotel Opera si trova in una zona con tante ambasciate, non lontana dal Palazzo del Governo e dalla sede di alcuni ministeri, purtroppo teatro di combattimenti. Era importante non perdere la lucidità, abbiamo cercato di reperire informazioni attendibili. Sbagliare avrebbe potuto fare la differenza. Momenti difficili? Ce ne sono stati tanti. Innanzitutto il giorno prima della nostra partenza. Come detto, abbiamo lasciato l’Ucraina solo dopo i ragazzi brasiliani. Loro erano lì con le famiglie, mogli e figli. Salutarsi è stato un momento emotivamente molto complicato, per non parlare quando poi siamo venuti via noi e abbiamo salutato i ragazzi, gli impiegati, i magazzinieri ucraini. La nostra squadra viene dal Donbass, quasi tutte le persone che lavorano nel club provengono da quella terra e già negli anni scorsi hanno affrontato situazioni strazianti: hanno genitori o fratelli grandi che vivono ancora a Donetsk, la loro condizione è stata dimenticata in Occidente. Ho la sensazione che pochi occidentali sappiano quello che è veramente successo in questi otto anni nel Donbass, è molto difficile dire chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Di sicuro saranno ancora una volta i civili e i poveri a uscire devastati da questo conflitto, da una parte e dall’altra. Tutto questo dimostra l’assurdità della guerra, intesa come strumento per cercare di risolvere le situazioni”.

Foto in alto tratta dalla pagina Facebook dello Shakhtar Donetsk, in basso lo staff al completo di mister De Zerbi, appena atterrato in Italia

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