Autore Redazione
martedì
5 Dicembre 2017
08:00
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Eventi - Piemonte

Due o tre cose che vogliamo ricordare di Luciano Nattino

Il ricordo di Luciano Nattino nelle parole di chi ha lavorato ed è cresciuto professionalmente con lui
Due o tre cose che vogliamo ricordare di Luciano Nattino

ASTI – E’ passato qualche giorno da che il teatro ha perso Luciano Nattino, un suo protagonista appassionato, che ha saputo dare molto come drammaturgo, regista, attore, ricercatore di tradizioni popolari e “giardiniere teatrale”, ovvero coltivatore di talenti, come lui stesso si definisce in un passo di “Due o tre cose che so di me”, la sua autobiografia. Luciano Nattino è mancato nella notte tra giovedì 30 novembre e venerdì 1 dicembre, all’età di 68 anni, dopo aver a lungo lottato contro la Sla, malattia che divenne anche l’argomento del suo testo teatrale «Un regalo fuori orario», presentato ad Asti Teatro 2014.

Nel corso della sua carriera collaborò a fondare il Collettivo Gramsci, che sarebbe diventato, prima, la compagnia professionale Magopovero e, poi,  all’inizio degli anni ’90, La Casa degli Alfieri, a Castagnole Monferrato, una comune artistica con l’intento di rispecchiare creatività nel lavoro come nella vita. Importanti le collaborazioni con artisti come Marco Baliani, la Banda Osiris, Cesar Brie e determinante quella con Judith Malina, fondatrice del celebre Leaving Theatre di New York. Con lei (che guadagnò per questo un premio Ubu) e Lorenza Zambon, Nattino mise in scena «Maudie e Jane» da “Il diario di Jane Somers”, di Doris Lessing. Sempre con Malina,  debuttò al teatro Valle nel ’98 con “Chisciotte”, testo provato anche a New York in una sala del Café La Mama, come ricorda nella sua biografia. “Chisciotte” sarà l’ultimo spettacolo in cui gli Alfieri lavoreranno come compagnia, perché, da allora, la Comune teatrale diventerà una Factory, nell’ambito della quale i soci seguiranno percorsi artistici personali.

In questa fase avviene l’incontro con la giovane compagnia del Teatro degli Acerbi, con la quale Nattino realizzerà tanti lavori, tra i quali “Canto per Vanzetti”, “Francesca e l’eroe”, “Renzo Tramaglino, sposo promesso” e la nuova versione del suo “Scaramouche”, il cui sottotitolo “una compagnia di guitti tra Molière, il teatro del ‘900 e il privato” suggerisce un mondo.  Nattino parla con un affetto profondo in “Due o tre cose che so di me” degli Acerbi, suoi teatranti-amici e un po’ discepoli. L’incontro con loro “avrebbe segnato in profondità la mia nuova vita artistica e di amicizia fino ad oggi”, scrisse nel 2015. Lunedì 4 dicembre, in occasione dell’ultimo saluto a Luciano Nattino, il Teatro degli Acerbi lo ha ricordato con questa lettera:

Luciano Nattino riceve nel 2012 a Pordenone il Premio “Stella dell’Arlecchino Errante”

GRAZIE LUCIANO… E SCUSA

Luciano,

Grazie per averci scelti, una quindicina di anni fa,  per averci regalato i momenti più intensi, artistici e profondi delle nostre vite da attori, per averci ispirato il nostro faticoso percorso “terrigno e volante”, come era il tuo Vanzetti. Grazie per i regali. I testi che hai scritto su di noi e per noi sono cose veramente nostre, doni che nessuna crisi, nessun taglio di budget, nessuna tempesta culturale, o politica potrà mai toglierci. Hai distillato arte, cesellando, ritoccando fino a un minuto dell’andata in scena, incasinandoci la testa. Eri teneramente maniacale perché per te le parole sono veramente sassi… e anche i corpi: dieci centimetri più vicino o più lontano, sul palco, o sulla pedana, o in mezzo a un prato sono un pianeta di significati, e tu volevi che passassero tutti. Ma tutti tutti.

Grazie per averci insegnato a sudare nel personaggio, ad ascoltare la platea, a sentire importante quello che si fa lì, a due metri dal pubblico, ma mai un centimetro sopra il pubblico. “Io quando la gente entra ascolto e so già come andrà lo spettacolo” dicevi… grazie per averci insegnato a non esibirci, a spogliarci, a donarci un po’ ogni volta. Tre zone di luce, i tagli a terra che sporcano di ombre le quinte, ma chi se ne frega, va bene così se quello che accade accade lì, sul palco. Accade e non può esserci distrazione per due ombre… se accade.

Grazie per le bottiglie di plastica che ci hai lanciato quando, imperterriti, non facevamo quello che dovevamo, per i cristi che hai staccato quando non eravamo dove dovevamo essere, come dovevamo essere… quando non eravamo noi, quando recitavamo e non eravamo. E poi grazie delle parole. Per quella musica che scrivevi in lettere. Che ogni volta sentirti leggere un copione per la prima volta era una sorpresa, lo leggevi tu, perché noi non sapevamo “come” lo avevi scritto, e il “come” è importante più del cosa. Era un godimento e davanti ai nostri occhi comparivano quei mondi un po’ cinematografici che tu evocavi in lettere ma poi volevi in corpi, e non eravamo sicuri di riuscire a restituirti.

Beh, hai sempre visto oltre. Oltre gli attori e oltre il pubblico e oltre il testo e oltre le luci e la musica e i corpi. Il teatro lo hai amato così profondamente da illuderti che tutti fossero così poeti e sognatori da vedere anche loro oltre. Quando non intuivamo l’oltre dei tuoi testi ci sentivamo un po’ incapaci, e siamo ancora un po’ beoti… come i tuoi ingenui “beati beoti” “del Mondo dei Vinti”, lì a raccontare qualcosa che deve essere raccontato perché la memoria è un dono che deve essere conservato, la tradizione era e dev’essere sempre un “consegnare”.

Tu ci hai consegnato con le tue manone un sacco di cose… alcune scivoleranno fra le nostre dita perché tutto quello che stava nelle tue manone non ci sta nelle nostre manine, altre rimarranno nel palmo, altre appese alle dita, altre incollate alla pelle, altre un po’ sotto la pelle, alcune bruceranno, altre ci faranno il solletico, altre entreranno nel sangue. Emergeranno, emergono ogni giorno sotto forma di “ah… ecco cosa voleva dire quando diceva…”, o “toh… questa è roba mia o viene da lui?”. Da quando hai smesso di parlare hai iniziato a parlarci.

E poi scusa Luciano… per non esserci stati quanto avremmo dovuto esserci o anche solo potuto esserci in questi difficili anni. Un po’ per vigliaccheria, un po’ per senso d’impotenza, un po’ perché non ci sembrava normale essere lì a farti un monologo quando eravamo abituati ad ascoltare i tuoi. Una volta ci hai tenuti seduti quattro ore (cronometrate) a spiegarci il senso di uno spettacolo che non comprendevamo… e non è chiaro se poi lo abbiamo capito. Noi siamo normali, nel migliore dei casi, tu sei sempre stato un eroe. Hai fatto cose avanti coi tempi, con una coerenza e una purezza che ti ha lasciato intorno solo gli amici veri. Gli altri gravitavano. Poi hai vissuto la tua malattia in una maniera talmente eroica che forse essere lì, in tua presenza, ci faceva sentire la piccolezza e l’inutilità delle nostre giustificazioni. Ci si specchiava nei tuoi occhi e non potevamo capacitarci di come riuscissero a sorridere.

Perciò scusa Luciano se siamo stati piccoli, ma tu sei stato un gigante. Avremmo voluto dire niente, solo grazie, perché essere qua su queste pagine sembra un partecipare alla gara di quanto ti si conosceva a fondo. Sarebbero forse bastati i non detti che ci sono fra attore e regista, un legame di amore e di odio intenso come un matrimonio. Ma un testo te lo dovevamo, dopo che ce ne hai regalati tanti. E poi vogliamo che si leggano le tue parole, queste, struggenti e bellissime, in cui Leone dice di come il giullare di Dio se n’è andato, il finale del tuo “Francesco sulla strada”.

Arrivederci “barba”… scrivi qualcosa di bello per gli angeli e perdonaci anche per non aver mai saputo “ridere con lacrime”, ci proveremo salutandoti.

LEONE = sorride Ha cantato fino alla fine. E le sue ultime parole sono state: “Il primo giorno che fui una vita, che vita! L’ultimo giorno che fui una vita, che quiete!” ride con lacrime Proprio mentre in alto ogni tuono era una mazzata contro il monte. Sembrava che il cielo proseguisse lo sfacelo della terra, il terremoto che la stava sconvolgendo. La pioggia si rovesciava come un immenso battesimo. La notte poi ha avuto pietà…capita quando ci sono di mezzo i segreti. E il mattino ho sentito un’allodola che diceva: sono l’ultimo sospiro di Francesco, salgo dritta in alto, picchio col becco il cielo azzurro, chiedo che qualcuno mi apra, porto nel mio canto tutta la terra…chiedo…chiedo…chiedo… sorride E’ morto cercando un paese innocente! 

Il Teatro degli Acerbi

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