19 Gennaio 2018
07:30
L’intelligenza che vola alto. Recensione di “Quello che non ho” ad Asti
ASTI – Un punto di vista che sa volare, rappresentato da due grandi intellettuali del ‘900, e una società che affoga nel consumismo che la distrugge, nell’ingiustizia e nella morte della bellezza. “Quello che non ho”, con Neri Marcorè, per la regia di Giorgio Gallione, spettacolo che ha fatto il tutto esaurito giovedì 18 gennaio al Teatro Alfieri, ha accomunato il pensiero di Pier Paolo Pasolini e di Fabrizio De André, entrambi lucidi e persino profetici nella loro direzione ostinata e contraria.
La forma è quella del teatro-canzone, con il trio di voci e chitarre composto da Giua, Pietro Guarracino, Vieri Sturlini che spaziano dal canto a cappella, all’accompagnamento musicale di Marcorè, che canta con un timbro molto simile a quello di De André, alla partecipazione all’azione scenica. Sull’asse portante delle canzoni del poeta-cantautore si avvita una trama che si dipana attraverso gli Scritti Corsari di Pasolini e il suo film-documentario La rabbia. La logica dell’intelligenza, che tutto ha previsto, investe le brutture su cui si basa il mondo consumistico, quello che inondandoci di beni superflui, rende superflua la vita. Così Marcorè passa attraverso ingiustizie che gridano orrore come “le miniere di re telefonino” in Congo, dove i nuovi schiavi, molti bambini, scavano per estrarre il coltan, affinché vengano prodotti nuovi cellulari. Su tutto, il mondo degli status symbol di “Ottocento” (dall’album le Nuvole), che porta in sé i semi della degenerazione, del disastro ecologico, della corruzione e dell’ingiustizia verso i deboli.
Gli argomenti sono veramente tanti e l’accostamento di canzoni, scritti e approfondimenti sull’oggi appare particolarmente azzeccato. L’incapacità o la non-volontà governativa, spiegate da Pasolini come “la sgradevole incombenza che deve assumersi chi vuole detenere il potere”, si fondono naturalmente con “Don Raffaè” di De André e certe interpellanze parlamentari, tanto sciocche da apparire surreali, sono lo specchio di un passato corrotto ormai radicato e fiorito. Nel presente, su una scena dove drappi leggeri che paiono di garza si illuminano e sembrano ora caverna, ora bosco e ora paesaggio primordiale o post catastrofico da “La favola della fine del mondo” di Stefano Benni, si ascoltano poesie in musica, che mantengono intatto il loro messaggio, e parole in cui ci si riconosce.
Lo sforzo e il merito della regia stano nel riunire un materiale tanto vasto in modo organico, senza dare l’impressione di forzature, consegnando alla bravura di Marcorè un continuum vario e appassionante. Numerosi gli scarti di tono dal drammatico all’ironico, impostati sull’interazione tra il protagonista e i tre bravi musicisti-attori, ottima dal punto di vista musicale, talvolta meno da quello dialogico. Pasolini e De André sono uniti in un ricordo di Marcorè legato ad un concerto del cantautore, come dalla canzone “Una storia sbagliata”, sigla finale di un documentario Rai sullo scrittore –regista, e dalla persistenza delle loro personalità nella memoria collettiva.
Dopo i tantissimi applausi al Teatro Alfieri rimane nel cuore la dicotomia intelligenza che genera bellezza e ottusità distruttiva: gli spettacoli che meritano fanno sempre germogliare pensieri.