12 Ottobre 2019
11:21
La complessità della leggerezza. Recensione di “Il fu Mattia Pascal” al Teatro San Francesco
ALESSANDRIA – TeatroLieve, la compagnia di cui è attore, regista e direttore artistico Giovanni Mongiano, sembra contenere nel suo nome un manifesto poetico. E’ infatti il tono lieve, ma al contempo capace di grande profondità, che prevale ne “Il fu Mattia Pascal”, interpretato, adattato e diretto appunto da Mongiano e presentato ieri, venerdì 11 ottobre, alla platea colma del Teatro San Francesco, nell’ambito della stagione Marte/Nodi, diretta e organizzata dalla Compagnia Stregatti. Il romanzo pirandelliano, nell’allestimento di TeatroLieve, mantiene, nella forma di monologo (l’originale è proprio la narrazione in prima persona), tutta la sua complessità, l’ironia sottile, le riflessioni filosofiche e il tema dello smarrimento dell’identità e delle certezze. Mongiano, solo in scena tra scaffali di biblioteca e libri sparsi per terra, ripercorre la vicenda di Mattia Pascal, bibliotecario frustrato, marito infelice e genero maltrattato, partito, all’insaputa di tutti, alla ricerca di fortuna al Casino di Montecarlo e, per errore, creduto morto da familiari e compaesani. Pirandello costruisce su queste basi una trama che affronta l’impossibilità di sfuggire alla sorte e alle gabbie sociali, l’illusione di libertà che si scontra con il ruolo necessario alla vita stessa e la frammentazione dell’identità. Mattia si troverà a vivere una non-vita (sarà “l’ombra di un morto”) nei panni di Adriano Meis, un alter ego inventato e quindi impossibilitato a confidarsi, amare e persino far valere i propri diritti di fronte alla legge. Mongiano riempie la scena, non tenta una contestualizzazione contemporanea, ma fa emergere la modernità con il ritmo e un’interpretazione dinamica, cerebrale e dai momenti ironici spiccati (e ben percepiti dal pubblico in sala). La sua narrazione scorre velocissima ed è sincronizzata talvolta con le splendide immagini in bianco e nero del film film muto del 1926 di Marcel L’Herbier, talvolta con la musica. Ballando sulle note di un tango, Mattia/Adriano si inventa di essere nato in Argentina, accennando un valzer si innamora e la Carmen segna il tempo della rocambolesca seduta spiritica cui si trova a partecipare. Tutto lo spettacolo è una partitura musicale, lieve nella forma e intensa nei contenuti, divertente e destabilizzante come Pirandello deve essere: un attimo prima tragico e un attimo dopo irresistibile nella caricatura della suocera o dell’anziano bibliotecario semicieco. Proprio questa immagine diventa una chiusa comica e drammatica, la vita che si consuma e consuma ogni guizzo vitale. Non sembra solo sul palco, Mongiano, dà voce a tutti i personaggi e dà anima ad una scenografia che muta (di Chantal Buratore e Sonia Dell’Anna), rivela ante a scomparsa da cui appaiono sagome dei protagonisti e un azzeccato teatrino di marionette (lo stesso citato nel romanzo, ma usato in modo sapiente).
Uno spettacolo che conferma la fama di grande interprete pirandelliano del protagonista (non a caso aveva inaugurato il XI Festival Pirandello nel giugno 2017) e che rende onore al genio dello scrittore siciliano, con un più di leggerezza che ne enfatizza l’attualità.