Autore Redazione
mercoledì
30 Ottobre 2019
01:56
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Cronaca - Alessandria

Quel cubo in mezzo a un campo in cui si decide come soccorrere le persone

Viaggio all'interno del 118 di Alessandria
Quel cubo in mezzo a un campo in cui si decide come soccorrere le persone


ALESSANDRIA – Non si vorrebbe mai chiamare eppure capita ed è allora che se ne percepisce l’importanza. Magari non subito “perché il rapporto è spesso complicato nei momenti di emergenza per la tensione vissuta da chi chiama” però sono loro i primi a intervenire e a salvare vite, sono i vari componenti del 118 di Alessandria. Il telefono squilla, gli occhi puntati sul monitor per individuare il luogo della chiamata, tutta la calma del mondo per tentare di tranquillizzare i parenti e gli amici di chi sta male, immaginarsi la scena e scegliere come intervenire. Tutto questo in “un minuto, un minuto e mezzo con 7-8 domande, domande necessarie e fondamentali per capire cosa stia succedendo e capire come intervenire – ha spiegato Giovanni Lombardi, Direttore 118″.

Quel minuto e mezzo sembra un’eternità per chi è dall’altra parte ma i 90 secondi sono decisivi per salvare le vite o evitare che una situazione recuperabile prenda una brutta piega. “Una volta impiegavamo due minuti, due minuti e mezzo e oggi siamo ancora più veloci“. Ma se anche quel minuto e mezzo sembra troppo sappiate che la prima persona con cui parlerete, grazie alle prime risposte, già elabora una diagnosi iniziale e far intervenire i colleghi che decidono di inviare il mezzo adatto. Dopo le prime informazioni cominciano le valutazioni, sull’entità del problema e quindi sulla scelta della tipologia di assistenza con l’obbligo anche di gestire le emergenze che possono seguire. Un effetto domino senza possibilità di errore.

Il 118 è circondato da una enorme vetrata al primo piano, in mezzo ai campi. Sotto di loro, poco distante, centinaia di salutisti che corrono mentre in quei pochi metri quadrati si soccorrono persone tra casi piccoli e grandi, a ogni ora del giorno e della notte, loro sono i registi di un pezzo decisivo della vita dei cittadini. Se il loro lavoro sarà riuscito non riceveranno un grazie perché abituati a operare dietro le quinte. Se finirà male rimarrà indelebile il ricordo di un salvataggio dall’epilogo amaro, “come nel caso di una bimba morta dopo che venne scagliata via dall’abitacolo dell’auto in un incidente” spiega Gianluigi Fantato, Responsabile Ricerca applicata, Protocolli e Formazione. Un lavoro in cui il dolore è costantemente davanti agli occhi, anche se non si vede, si sente solo. “Tuttavia noi amiamo questo mestiere, lo facciamo come passione, è quasi un hobby – spiegano al 118 – diversamente sarebbe impossibile farlo“.

Nel 2018 le chiamate in centrale sono state 57.365
49.087 i casi gestiti con ricovero ospedaliero

All’interno del 118 le sale sono collegate l’una con l’altra e ogni operatore è pronto a supportare l’altro. Tutti sono legati “da una grande amicizia, siamo un team, viviamo a stretto contatto ogni giorno e solo così possiamo funzionare“. Un cenno, uno sguardo, un orecchio teso sono i segnali per gestire le emergenze davanti a monitor con luci che pulsano o telefoni che lampeggiano.

Dall’altra parte del telefono ogni storia rappresenta un’emergenza e la convinzione di gestire la propria vita o quella dei cari si sgretola. La voce degli operatori del 118 diventa la cosa più concreta cui aggrapparsi, la voce di cui fidarsi, come dimostrato dalla chiamata di un ragazzo che chiede conforto su una manovra appena compiuta. La voce di chi risponde in centrale è una carezza e uno scrollone contemporaneamente, per infondere coraggio prima che arrivi l’ambulanza. E, se tutto va bene, di quel cubo in mezzo ai campi si continuerà a ignorare l’esistenza.

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