Autore Redazione
lunedì
25 Agosto 2025
06:07
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Cronaca - Alessandria

Fontefrancesco sposa la visione dello chef Sardi ma ammonisce: “Il Monferrato non imiti le Langhe”

Fontefrancesco sposa la visione dello chef Sardi ma ammonisce: “Il Monferrato non imiti le Langhe”

PROVINCIA DI ALESSANDRIA – L’intervista al cuoco Beppe Sardi, in cui raccontava il crescente interesse dei turisti stranieri per il Monferrato e la sua cucina, ha suscitato un interessante dibattito sulle potenzialità del territorio. Sardi ha invitato a ragionare sulle potenzialità del Monferrato e previsto un boom delle visite nel territorio nel giro di pochi anni. Il tema culinario però ha attirato l’attenzione di Michele Fontefrancesco, professore associato di antropologia culturale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ha sposato la visione dello chef, invitando tuttavia a disegnare per il Monferrato un ruolo autonomo da tutte le altre zone piemontesi, soprattutto dal cuneese. Il raviolo al plin, ha spiegato, è un retaggio di quelle zone mentre l’Alessandrino coltiva radici enogastronomiche più vicine al basso pavese, o della montagna ligure. Fontefrancesco esorta dunque a sfruttare il successo di altre zone oggi più conosciute ma anche a cominciare a disegnare una propria autonomia per coltivare un succsso proprio. Ecco la sua riflessione:

Scrivo in risposta alle riflessioni dello chef Beppe Sardi pubblicate dalla sua testata che delineano la direzione che sta prendendo il turismo gastronomico nel Monferrato. Se da un lato è innegabile e positivo che il turismo stia scoprendo le nostre colline, dall’altro è fondamentale chiederci cosa stia realmente scoprendo.

Le parole dello chef Sardi, che giustamente celebra la ricchezza del nostro territorio, non possono farci ignorare un fenomeno sempre più pervasivo in campo gastronomico che involontariamente attesta anche il nostro rinomato gastronomo: un processo di appiattimento e omologazione di una cucina che storicamente si è distinta da quella del resto del Piemonte meridionale per le profonde influenze ricevute tanto dal mondo ligure quanto quello lombardo. Prendendo spunto dal tema dell’articolo, potrei definire questo fenomeno una “plinizzazione” della nostra cucina.

L’agnolotto al plin, storicamente una gemma della tradizione di Langa, è diventato negli ultimi decenni il simbolo egemonico di tutto il Piemonte. Un’icona così potente da mettere in ombra, per esempio, la più diffusa tradizione dell’agnolotto quadrato che accumunava un più ampio areale che dalla collina astigiana si protendeva ad est abbracciando l’Oltrepò pavese. Il quadrato come il plin parla di tanto di cucina della festa (e del carnevale) quanto di mondo domestico, mettendo in scena una pluralità di ricette relative alla farcia capaci di valorizzare tanto l’eccellenza delle produzioni locali, in primis legate alla carne di bovino, quanto alla capacità di combinare ciò di cui si disponeva quotidianamente in casa, dal riso agli ortaggi, passando per le carni meno nobili, disegnando una geografia molto variegata di specifici micro-territori tutti ancora compiutamente da raccontare. Questo era il quadrato ma oggi questa ricca tradizione che era (anche) del Monferrato rischia di essere raccontata e percepita da parte del turista come una variante minore del più “raffinato” plin.

La pasta ripiena diventa, quindi, un altro piano in cui le specificità del Monferrato vengono a perdersi, in un processo di trasformazione della gastronomia piemontese in una sorta di “Grande Langa”. Langa è sicuramente un brand di successo che estende il suo richiamo ben oltre quelli geografici, ma accettare di essere l’ultima propaggine della Langa prima del Po rischia di vedere il nostro territorio a traino di un altrove; un riflesso di un originale su cui non si ha controllo creativo.

Fortunatamente, questa tendenza all’omologazione non è ineluttabile. Esistono forze vive sul territorio che lavorano attivamente per riscoprire e valorizzare le cucine specifiche dei nostri areali, opponendo alla semplificazione la ricchezza della complessità. Penso per esempio a progetti istituzionali, quali il progetto “Rosignano Accoglie: Saperi e Sapori in Monferrato” nato come esito del Bando Borghi e che sta provando con le sue azioni a fare della cultura gastronomica motore di sviluppo e di identità del territorio della collina casalese. Penso alle azioni editoriali di editori del nostro territorio che hanno visto in autori, come Luigino Bruni, una voce importante nella riscoperta della ricettistica locale alessandrina. Mi riferisco alle numerose iniziative che le condotte Slow Food hanno sviluppato nell’alessandrino e che rappresentano oggi un sedimentato di una coscienza del cibo.

Concordo con Sardi: è giusto essere felici dell’attenzione che il Monferrato sta ricevendo. Non possiamo, però, come territorio “late comer” nel settore del turismo, permetterci di abbassare la guardia circa la valorizzazione delle nostre specificità. Credo sinceramente ci sia ampio spazio per ambire a diventare anche noi come Monferrato e alessandrino brand riconosciuto e riconoscibile, ma dobbiamo essere coscienti che la nostra storia gastronomica ci fa molto più simili a un territorio come quello del basso pavese, o della montagna ligure, piuttosto che quella della collina cuneese di cui sembra si voglia andare a traino. Perché, quindi, non pensare a nuovi dialoghi con i nostri vicini meridionali ed orientali per per rafforzare un’alternativa potente all’omologazione che avanza?

Qui, concludo. Oggi siamo soddisfatti di essere il riflesso affascinante di altri. Domani, però, è forse il tempo di ambire a essere l’originale di noi stessi.

Michele Fontefrancesco è professore associato di antropologia culturale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore del network internazionale di antropologia del cibo della European Asosciation of Social Anthropologists. Ha curato numerose pubblicazioni internazionali circa lo sviluppo del turismo gastronomico e la valorizzazione dei patrimoni alimentari, tra le quali il recente volume Rural Affective Economies (Londra, 2025).

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