27 Aprile 2020
14:54
“Mi bardo da extraterrestre ma adesso fatemi rivedere mio padre”: l’appello toccante di una figlia
ALESSANDRIA – Il covid-19 sta fiaccando le forze, spolpando l’economia e sta anche riducendo a numeri le persone che ogni giorno muoiono. Ma possiede anche un altro terribile difetto, sta allontanando le persone. Non si tratta della sola “distanza sociale” ma di un allontanamento di tutti quei rapporti fortissimi costruiti nel tempo, fatti di affetto, di amore. La questione dei congiunti, che esclude i fidanzati è un esempio, ma è ancora più evidente la questione sollevata da una nostra lettrice alessandrina, Giulia Vay. La sua lettera disperata non è solo un appello ma anche una dichiarazione d’amore verso il padre. È in una casa di riposo e per tutelare la sua salute e degli altri ospiti ha accettato di non vederlo per un po’ ma oggi il disastro che si è consumato nelle numerose rsa del Paese e la crudeltà di una misura così severa per delle persone che possono interpretare la distanza imposta come un abbandono non sono più accettabili. La testimonianza di Giulia è una lezione per tutti ma è anche una meravigliosa pagina di umanità che merita rispetto e attenzione. Giulia chiede di rivedere le regole di accesso nelle case di riposo ed è pronta, a sue spese, a “vestirsi da extraterrestre” pur di rivedere il padre, pur di tornare a leggergli il giornale. E quel termine, “extraterrestre”, è perfetto perché dobbiamo cercare di tornare a essere umani e non alieni, soprattutto oggi. Ecco la lettera:
“Questo messaggio è rivolto principalmente a chi ha parenti nelle case di riposo o a chi è per qualche motivo interessato all’argomento. Non voglio qui parlare della situazione in cui tante strutture si trovano, di cui ci arrivano notizie dai telegiornali e dai quotidiani (ed ogni volta soffro anche fisicamente). Voglio invece parlare del fatto che, da quasi due mesi, queste sono chiuse all’accesso ai parenti.
Dopo un primo sconcerto iniziale personalmente ho, per un po’ di tempo, parzialmente accettato la disposizione, considerata la situazione e la rapida diffusione del virus, salvo poi scoprire che in tanti casi è stato inutile e che in tante strutture si sono poi adottati comportamenti di gran lunga più rischiosi rispetto alle visite dei parenti (vedi, ad esempio, ricoveri nelle RSA di pazienti covid). Ma al di là di questo, che non mi interessa qui analizzare, io adesso non solo penso ma sento intensamente che per mio padre, così come credo gli altri anziani ricoverati, si sia raggiunto il limite di sopportazione. Al contrario di quello che si possa pensare gli anziani ricoverati non sono persone abbandonate dai propri parenti, che li mollano in una struttura e non ci pensano più, salvo andarli a trovare qualche domenica quando non si ha nulla da fare. Per la stragrande maggior parte di loro i parenti, che per i più svariati motivi non sono stati letteralmente in grado di tenerli in casa, vanno quotidianamente a trovarli e quando lo fanno non solo gli fanno sentire il proprio affetto e calore umano (cosa comunque assolutamente fondamentale per la sopravvivenza di ognuno di noi e in particolar modo per loro che non hanno più molto altro cui aggrapparsi), ma supportano il lavoro del personale in vari modi garantendo al proprio caro un livello di assistenza migliore e più umano. Li aiutano, per esempio, durante i pasti perché il personale è sempre insufficiente perché possa dedicare tempo adeguato per i pasti di ogni ospite. Danno loro spesso da bere, e adesso col ritorno della stagione calda è fondamentale. Li tengono in esercizio facendoli camminare, per chi ne è ancora in grado, o facendogli fare movimento per attivare quei muscoli ancora in grado di lavorare. Si assicurano che il parente abbia tutto il necessario, a partire dai dispositivi medici, e che funzioni correttamente (mi riferisco, ad esempio, al materasso antidecubito: molte volte mi sono accorta che questo non funzionava, perché rotto o perché semplicemente staccato magari dalle donne delle pulizie). Tutte cose che il personale, sottodimensionato ma a norma di legge (…), non è in grado di fare con accuratezza. Poi io ad esempio tutti i giorni leggo (leggevo) a mio padre il giornale, quando se la sentiva lo portavo fuori a fare delle passeggiate (con carrozzina), mi assicuravo che non soffrisse troppo per le posizioni assunte sulla carrozzina, posizionandolo correttamente. Tantissime volte, quando arrivavo in struttura, lo trovavo sofferente perché seduto male. Allora andavo subito a chiamare una OSS per chiedere di aiutarmi (da sole non ce la si può fare) a posizionarlo correttamente. E ricevevo tutte le sue varie lamentele di sofferenze vere o presunte, e cercavo di verificare, segnalandolo alle infermiere, se si poteva fare qualcosa per alleviarle.
Per due mesi a mio padre, così come agli altri, è venuto a mancare tutto questo. Inoltre il personale della struttura non è stato aumentato ma, per forza di cose, ridotto. C’era l’emergenza, d’accordo, che ci ha colti tutti impreparati, comprese le direzioni delle case di riposo. Però adesso basta. La vita di queste persone è già estremamente limitata a causa delle loro patologie e del fatto di trovarsi in una struttura che, per quanto possa essere eccellente, già di per sé tende a spersonalizzare. Io credo che adesso dobbiamo almeno restituirgli l’affetto e le attenzioni premurose dei propri cari, restituirgli l’umanità.
I dispositivi di protezione personale adesso ci sono. Io sono disposta a comprarmi tutto il necessario per poter andare lì bardata come un extraterrestre, a mantenere il più possibile la distanza di sicurezza da mio padre (ovvio, per dargli da mangiare un minimo mi dovrò avvicinare), a rispettare orari definiti e regole (soprattutto igieniche) ferree, ma adesso esigo di poter entrare in struttura. Non ho consegnato la vita di mio padre ad una struttura, ho dovuto chiedere un aiuto per le cure da fornirgli.
Ho scritto questo messaggio per cercare di capire se sono l’unica pazza che la pensa così oppure altri parenti sono d’accordo con me e ci sono i presupposti per poter eventualmente fare pressione perché si riapra l’accesso (controllato) nelle strutture.”