3 Novembre 2023
13:05
Un deserto familiare. Recensione di “Agosto a Osage County” al Teatro Alfieri
ASTI – Opposti che stridono, riferimenti letterari alti accostati a cinica bassezza. Sono temi e registri che coesistono in “Agosto a Osage County”, di Tracy Letts, testo lucido e drammatico, che è valso il premio Pulitzer al suo autore e da cui è stato tratto nel 2013 il film interpretato da Meryl Streep, Julia Roberts ed Ewan McGregor. Ieri, 2 novembre, “Agosto a Osage County”, prodotto dal Teatro Stabile di Torino- Teatro Nazionale, con la regia di Filippo Dini è andato in scena nel Teatro Alfieri di Asti, davanti ad un pubblico numerosissimo che ha applaudito a lungo il cast formato dallo stesso Dini insieme a Manuela Mandracchia, Fabrizio Contri, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Fulvio Pepe, Stefania Medri, Valeria Angelozzi, Edoardo Sorgente, Caterina Tieghi, Valentina Spaletta Tavella. Il prossimo spettacolo del ricchissimo cartellone dell’Alfieri sarà il 15 novembre con “Vuoti a rendere” di Maurizio Costanzo con Ileana Spalla e Sergio Danzi.
Letts prese ispirazione dal titolo omonimo di una poesia di Howard Starks, che suggerisce cura e calore familiare, l’esatto contrario di quanto da subito trapela dal suo dramma. La storia verte sul raduno della famiglia Weston nella casa in Oklahoma, ai margini del deserto, in occasione della sparizione e morte del patriarca Beverly, poeta e alcolizzato. Quello che dovrebbe essere un momento di sentire comune diventa uno spazio di resa dei conti, di disgregazione e di rancore, sino alla rivelazione di un peccato originale da cui tutto sembra derivare. Intorno, il clima rovente del deserto, delle grandi pianure che “sono uno stato di malessere dell’anima”, in un’atmosfera che pare senza via di uscita.
Filippo Dini (coadiuvato nella direzione da Carlo Orlando, anche dramaturg) nelle sue note di regia ha citato Cechov a proposito dello “scontro generazionale all’interno di una famiglia” e il filone del dramma borghese, passando attraverso Ibsen, Pirandello e poi Eduardo, ma in un contesto contemporaneo e crudo. La sua regia è dinamica, pare composta da tessere che si scompongono e ricompongono, in una coreografia dove il dramma si tinge di umorismo (ebbene si ride anche) e sfocia addirittura in un momento di musical che strappa l’applauso a scena aperta. I dialoghi si incatenano in un disegno logico, che permette di godere di circa tre ore di spettacolo senza mai perdere un attimo l’attenzione, e le scenografie (di Gregorio Zurla) scorrono in continuazione allo stesso ritmo. Sono parte del dramma, rappresentano una casa fatta di più ambienti su due livelli, tradizionali nei particolari (carta da parati a righe, televisore, cucina piastrellata) ma, allo stesso tempo, stranianti nello scomporsi e ricomporsi. Trasmettono la dicotomia tra tradizione rassicurante e mutevolezza ambigua sino ad un vuoto finale esteriore e interiore.
Non a caso il patriarca Beverly Weston/Fabrizio Contri all’inizio cita la poesia “Gli uomini vuoti “ di T.S. Eliot e sono irrisolti e invano alla ricerca della pienezza tutti i protagonisti di questa famiglia malata. Prevalgono le personalità forti e su tutte quella di Violet, vedova di Beverly e madre di Barbara, Ivy e Karen (Valeria Angelozzi). Anna Bonaiuto è una Violet crudele, avida, segnata dalla malattia e dipendente da psicofarmaci. Manipolatrice e tagliente, a lei si devono le battute più cattive, ma anche la vena più caustica che attraversa come una colonna vertebrale tutta la storia e la collega ai suoi antefatti. Accanto a lei Barbara/Manuela Mandracchia, appena abbandonata per una donna più giovane dal marito Bill (lo stesso Dini) e bravissima nella discesa verso l’abisso della disperazione e della dipendenza da farmaci.
Ognuno ha la sua storia di vuoto interiore e di ricerca della felicità e ognuno è pronto a tutto per tenere in vita un’illusione. C’è posto anche per l’amore puro, quello tra Ivy/Stefania Medri e il cugino Charlie/Edoardo Sorgente, destinato a subire l’eredità del peccato originale della famiglia. E poi la ferocia di Mattie Fae, sorella di Violet (Orietta Notari), lo squallore morale che va dalla superficialità di Bill alla perversione del compagno di Karen (Fulvio Pepe), che tenta di stuprare la figlia quindicenne (Caterina Tieghi) di Barbara e Bill.
In questa catastrofe di non-rapporti umani solo il marito di Mattie Fae (Andrea di Casa) trova la forza di opporsi alla moglie e di non capire “tutta questa cattiveria”, mentre la natura di accudimento e cura che la famiglia dovrebbe avere in sé è incarnata solo dalla governante Johnna/Valentina Spaletta Tavella. Sarà lei, discendente del popolo cheyenne e nativa di quell’arido deserto, ad accogliere tra le sue braccia Violet, rimasta sola in una stanza vuota come lo spazio che si immagina intorno e dentro di lei. “E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ non già con uno schianto ma con un lamento…”. Ancora torna Eliot ne “Gli uomini vuoti” e ritorna il registro poetico in un capolavoro di sintesi di opposti che rappresenta la condizione umana, il suo egoismo e la desolazione all’interno dei rapporti familiari. Una regia dinamica che, oltre a sviscerare ogni lato del testo, offre spunti originali e una splendida interpretazione da parte di tutto il cast. Assolutamente da vedere.