Autore Redazione
domenica
21 Gennaio 2024
11:52
Condividi
Tempo Libero - Valenza

Eschilo e come imparare la pace. Recensione di “Sette a Tebe” a Valenza

Palpita come un organismo vivente e segue una logica affilata l’allestimento al Teatro Sociale della tragedia della compagnia PEM, diretta da Gabriele Vacis. Tanto pubblico e lunghissimi applausi
Eschilo e come imparare la pace. Recensione di “Sette a Tebe” a Valenza

VALENZA – “La pace si impara dai racconti di battaglia”. E’ una battaglia antica che ha in sé la violenza e la natura di tutti i conflitti quella messa in scena in “Sette a Tebe” dai giovani attori della compagnia Potenziali Evocati Multimediali (PEM) con l’adattamento e la regia di Gabriele Vacis. Lo spettacolo, andato in scena ieri 20 gennaio di fronte al numeroso pubblico del Teatro Sociale, è stato il terzo appuntamento della stagione APRE ed è l’ultimo lavoro dei PEM, compagnia residente, e quindi valore aggiunto, del Teatro Valenzano. Il prossimo appuntamento di APRE, con la direzione artistica di Roberto Tarasco e quella organizzativa della Cooperativa CMC di Angelo Giacobbe, in collaborazione con lAssessorato alla Cultura del Comune di Valenza e Piemonte dal Vivo, sarà “Jessica and Me”, venerdì 16 febbraio, di e con Cristiana Morganti, storica danzatrice del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch.

Eschilo duemilacinquecento anni fa ha raccontato la battaglia, il duello fratricida, la paura e l’incomprensibile bellezza di ciò che è terribile. Ne “Sette a Tebe” i due fratelli Polinice ed Eteocle, figli di Edipo, combattono per il trono. Eteocle, che ha disatteso l’accordo con il fratello di governare un anno ciascuno, difende Tebe, mentre Polinice, unitosi agli argivi, cinge d’assedio la città. Ad ognuna delle sette porte i migliori guerrieri argivi sfideranno i campioni tebani e i due fratelli si combatteranno sino alla morte di entrambi.

Il sipario è aperto, il pubblico sta entrando in sala e gli attori già vivono la scena in un movimento che, con una soluzione di continuità, confluisce nell’inizio dello spettacolo. Non sono le parole di Eschilo a rompere il silenzio, ma il racconto di una manifestazione a Torino a sostegno dei palestinesi, una contemporaneità che non può essere filtrata dai secoli. La regia di Vacis sfrutta la bravura e la grande coesione dei suoi attori per dare vita a versi antichi. I movimenti sono fluidi, il coro delle giovani donne che intravedono l’esercito nemico avanzare è un unicum dal quale si staccano man mano le singole voci, come personalità distinte. La paura si sente, come gli zoccoli dei cavalli dell’esercito nemico, un rumore crescente e scandito dal battito dei piedi degli stessi attori, si sente nel cigolio dei cardini delle porte nel tappeto sonoro della scenofonia di Roberto Tarasco. E’ fronteggiata dalla figura dominante di Eteocle, interpretato in contemporanea da due attori, ad ingigantire l’enormità della “maledizione dei padri che dice che è bello morire giovani”. Suo interlocutore il popolo preso da terrore, ammirazione e irresistibile attrazione per la battaglia; soprattutto diviso tra sensibilità femminile, fatta di timore, rifiuto della violenza e conoscenza del sangue e maschile, attratta dalla lotta e dalla sua estetica.

L’azione scenica è plastica, basta a se stessa su un palco vuoto, passa da ritmi più morbidi ad altri forsennati, che paiono danze tribali. E’ scandita da canti e cantilene in diverse lingue, dal bretone, al greco, al genovese di Sidun (di De André) ed è guidata da una traccia che cita “Un terribile amore per la guerra” di James Hillman. Secondo il filosofo e psicanalista Hilmann la sfera orribile della guerra è indissolubilmente unita alla sfera del desiderio e dell’attrazione, come l’unione archetipica di Ares e Afrodite. Se non si comprende la guerra non si può comprendere la pace, che si autodefinisce solo come sua assenza. Così alla descrizione fatta dal messaggero di Eschilo delle splendide armature dei nemici di Tebe, si alterna l’elencazione delle armi moderne e della loro prodigiosa potenza, dal kalashnikov in poi, in un crescendo di orrida meraviglia (“la pistola è di Afrodite non meno che di Ares”).

La violenza si consuma, il fratricidio reciproco si conclude e gli attori, finora abbigliati di nero, indossano abiti colorati. I protagonisti tornano ad essere loro stessi, raccontano, da giovani che non hanno conosciuto la guerra, ciò che hanno ascoltato da bisnonni, parenti, amici. La paura della guerra non può colpire chi non la conosce, così è difficile provare compassione. Sono i racconti di battaglia che possono insegnare la pace, è l’amore della vita che può vincere l’assurdità dell’amore per la guerra. E con l’invito alla platea a dire il proprio nome e l’età seguiti da “sono vivo” termina una storia antica, che palpita di vita attraverso la sensibilità di dodici splendidi giovani protagonisti: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Daniel Santantonio, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera, Giacomo Zandonà. Raramente la bellezza è tanta da toccare le corde sia della logica che dell’emotività e, quando succede, in una tragedia letta e così vivificata, bisogna partecipare, vedere e partecipare ancora.

Sette a Tebe è una produzione di Potenziali Evocati Multimediali e ArtistiAssociati Centro di Produzione Teatrale Gorizia, 76 Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, Fondazione ECM Settimo Torinese in residenza presso i Cantieri Teatrali Koreja e Teatro Sociale di Valenza.

Condividi