Autore Redazione
sabato
22 Giugno 2024
12:40
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Tempo Libero - Piemonte

Prima nazionale ieri ad AstiTeatro per “La cerimonia del massaggio”. La recensione

L’ironia affilata di Alan Bennett nella drammaturgia di Tobia Rossi e nell’interpretazione di Gianluca Ferrato diretto da Roberto Piana nella pièce che ha debuttato al Teatro Alfieri
Prima nazionale ieri ad AstiTeatro per “La cerimonia del massaggio”. La recensione

ASTI – “Una funzione è una recita” dove i fedeli sono il pubblico e l’officiante il mattatore. Questa la premessa di “La cerimonia del massaggio” di Alan Bennett, presentato ieri 21 giugno in prima nazionale ad AstiTeatro, festival che ancora una volta ha dimostrato di ospitare il meglio della drammaturgia contemporanea. AstiTeatro proseguirà sino al 29 giugno e il programma è consultabile su astiteatro.it. Questo fine settimana Il festival ospiterà il concorso teatrale “Scintille” (qui il programma).

“La cerimonia del massaggio” è un romanzo breve, scritto da Bennett circa vent’anni fa e dalle tematiche, ha sottolineato Tobia Rossi, che ne ha curato la drammaturgia, ancora estremamente attuali. La sua carica ironica, l’analisi impietosa delle ipocrisie e l’inaspettata delicatezza nel dipingere le debolezze umane ben traspare nell’allestimento con la regia di Roberto Piana, che riprende la traduzione di Anna Marchesini, prima (e fino a ieri unica) ad averlo portato in scena.

In una nube di incenso Gianluca Ferrato, nelle vesti sacerdotali di Padre Geoffrey Jolliffe, fa oscillare un turibolo e si accinge a celebrare una commemorazione funebre. Una torre rotante al centro diventa pulpito, confessionale e altare, mentre dei ceri ai lati completano l’ambientazione in una chiesa cattolica, ma l’atmosfera pare quella di un concerto che si apre con “Bohemian Rhapsody” ed effetti di fumo. E’ un contrasto tra sacro e profano, apparenza e interiorità, mondanità e intimità ben presente in Bennett e ben reso anche a partire dai particolari scenici (di Francesco Fassone).

Il celebrato è Clive, massaggiatore giovane e aitante morto improvvisamente in America Latina, oltre che gigolo dai tantissimi clienti VIP, tra cui, seppur estraneo al mondo che conta, lo stesso sacerdote. Ferrato dà voce alla personalità di Padre Geoffrey e alla sua complessità, in cui coesistono pacificamente, nella sincera dedizione al suo ministero, fede e omosessualità, timidezza e passione. La scelta drammaturgica si concentra sul suo sguardo, attraverso cui lo spettatore osserva l’intera pletora di personaggi radunati in chiesa: una folla di cantanti, star dello spettacolo, individui arricchiti e volgari, ignari delle più elementari norme di decoro e di educazione. I commenti di Ferrato/Jolliffe sono esilaranti, espressi in forma di riflessione, ma anche di dialogo con il defunto, evocato nella sua desiderata prestanza fisica e nella sua sfrontatezza. Così, mentre il rito/spettacolo inizia (le note sono quelle di “The show must go one”), sembra di vedere una folla di individui “usciti da una convention di guerre stellari” che fumano in chiesa, si addormentano durante le preghiere, scambiano l’acquasantiera per un portacenere gigante.

In un mare di mondanità superficiale impietosa e impietosamente fotografata, emergono personaggi cui Ferrato dà voce, in dialoghi dove moltiplica la sua voce e le sue posture. Proprio nel corso dei vari interventi di amanti/clienti del defunto, si insinua nei presenti il terrore circa la causa della sua morte. Il temuto virus (ovviamente quello dell’AIDS) non è mai citato, ma incombe e il contrasto tra l’apparenza pacata della cerimonia e il panico generale diventa frenetico, sino ad una rivelazione finale, quando (ancora i Queen) la tensione si stempera con le note di “Who wants to live forever”.

Tanti gli spunti e tante le tematiche, sempre filtrate dalla splendida interpretazione di Ferrato, già diretto con identica ironia e acume da Piana nel precedente “Tutto sua madre”. Alle osservazioni caustiche sulla gerarchia ecclesiastica o sull’ottusa ipocrisia dei parrocchiani si accompagna il mondo interiore di padre Geoffrey, lontano dallo scabroso, confessato in modo sì ironico, ma anche dolce nel suo bisogno di compagnia. “Avere te in mutande che guardavi la TV sul divano era quanto di più vicino alla vita con qualcuno che avessi mai avuto”, dice il protagonista in un dialogo immaginario con Clive, e una debolezza si rivela umano desiderio di amore e condivisione, seppur estemporaneo e prezzolato. Il viaggio nella profondità dell’istinto e del desiderio sfocia in un percorso persino tenero, alla ricerca di un necessario affetto. Sarà il finale a sublimare, con una trovata registica che sa di incontro, parola scritta, brindisi con un tè, il lato in fondo lirico di una storia che diverte alle lacrime e poi un po’ commuove.

Un allestimento che sorprende, provoca, incastona ad arte canzoni iconiche ed è sempre sostenuto da tempi perfetti. Si potrebbe definire un gioco di specchi, dove Ferrato interpreta più personaggi e il loro riflesso sul volto e nelle riflessioni del suo protagonista principale, in un dialogo continuo con l’esterno e con il suo intimo. Gli applausi, tanti e meritati, del Teatro Alfieri sono sulle note di “Just a Gigolo”, ma “La cerimonia del massaggio” è molto di più di questo.

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