16 Settembre 2024
07:00
Il gioco della sopraffazione. Recensione de “La gabbia dorata” ad Hortus Conclusus
NOVI LIGURE – Cinico, ai limiti del grottesco e claustrofobico. “La Gabbia dorata”, liberamente ispirato a Ritter, Dene, Voss di Thomas Bernhard con la regia di Monica Bonomi, ha terminato sabato 14 settembre la sezione teatrale di Hortus Conclusus. Il festival ideato e diretto da Andrea Lanza riserva ancora per i prossimi due sabati di settembre due incontri pomeridiani del ciclo Lo spazio e le parole con Luigi Nazzareno Todarello e, a fine ottobre, l’anteprima del nuovo spettacolo firmato da Lanza.
“La gabbia dorata” è un testo ossessivo in cui tre protagonisti sono legati da disprezzo e da un passato irrisolto, dove la ripetitività diventa follia e dove pensiero e logica portano solo all’autodistruzione. Due sorelle, entrambe attrici, vivono nella casa di famiglia in un rapporto malato, dettato da dipendenza e odio reciproci, e aspettano l’arrivo del fratello, uscito per volontà di una delle due dal manicomio nel quale si era autorecluso.
Il contesto è totalmente irrealistico e simbolico, su una scena dominata solo da tre sedie minuscole e dove si presuppongono una quantità di mobili e di suppellettili. La sorella maggiore (Mariarosa Panetti), si muove con una gestualità a scatti, come una bambola, e di una bambola parlante ha il tono di voce, modulato su un registro sopra le righe. Il suo servilismo nei confronti del fratello e la sua sottomissione, che sa anche di attrazione incestuosa, sono una catena sopportata e imposta. Lo stesso legame patologico si mostra nella sorella minore (Graziella Povia) in forma di disprezzo e alterigia, esaltati in movenze teatrali enfatiche e in battute crudeli. Altrettanto spiazzante è il fratello (Fabio Beninati), il cui cinismo è declinato in un filosofeggiare amaro e cervellotico, iroso e imprevedibile negli scoppi di collera.
Tra i tre, un’incomunicabilità palpabile e un desiderio di sopraffazione che sfociano nel surreale e toccano quel limite estremo che esiste tra tragedia e comicità. Il taglio registico restituisce un’irrealtà lunare che ingigantisce la realtà dell’incomprensione reciproca. I protagonisti hanno costumi da pierrot, con tanto di lacrima disegnata sul volto, compiono gesti in un ambiente esistente solo per loro e sono chiusi in una solitudine che non prevede aperture.
La regia di Monica Bonomi li trasferisce in una dinamica infantile. Tutto presuppone e trae origine dall’infanzia, dentro un gioco dove le seggioline sono da bambini e dove si finge l’esistenza dell’invisibile. E’ il gioco del “facciamo finta che”, che qui si traduce nell’apparecchiare una tavola inesistente, nel mangiare qualcosa che non c’è (i “krapfen fragranti”, un legame con il passato al contempo amato e odiato) e nel vedere una prigione ovunque. In una gabbia dorata arredata di porcellane e di ritratti di famiglia si consuma per i tre fratelli “la nostra sola esistenza possibile”, dove anche chi vorrebbe fuggire in realtà resta e perpetua uno stato di cattività.
E’ una gabbia forse fisicamente reale, oppure solo immaginata, come lascia intuire la nudità della scena. Sconcertante a questo proposito il finale, un’intuizione sul vuoto e sull’inutilità della finzione, la fine di un gioco e lo spettro del nulla. Gestualità, mimica facciale, costumi, registri vocali sono un tutto al servizio di un testo spiazzante e impietoso, dalle dinamiche perverse e tragicamente comiche. Una lente: distorta e macroscopica, eppure puntata su un inferno domestico, come ce ne sono tanti. Non è rappresentato spesso Thomas Bernhard e questa sua intelligente rilettura è un’occasione da non perdere.