20 Giugno 2025
07:30
Non “un santino edulcorato”. Recensione di “Lu santo jullare Francesco” ad AstiTeatro
ASTI – C’è un filo che attraversa il tempo, irride corruzione e ingiustizie, si fa satira e ha il potere di rinnovare. E’ una forza che si esprime con il linguaggio dei giullari, capaci di parlare tutte e nessuna lingua, di radunare le folle e di cambiare la storia. “Lu santo jullare Francesco” di Dario Fo, interpretato da Ugo Dighero diretto da Giorgio Gallione, racconta di un rivoluzionario carismatico e trascinatore molto lontano dall’immagine da “santino edulcorato” del poverello d’Assisi della narrazione di Bonaventura da Bagnoregio, l’unica approvata dal Capitolo di Narbonne.
Lo spettacolo, una co-produzione Teatro Stabile di Genova | CMC/Nidodiragno con la collaborazione del Teatro della Juta, è stato presentato in prima nazionale ieri 19 giugno nell’ambito di AstiTeatro 47 e ha convinto il pubblico del Teatro Alfieri, guadagnandosi, oltre a lunghi applausi, vere acclamazioni. Il festival proseguirà sino al 29 giugno; oggi e domani (venerdì 20 e sabato 21 giugno) si svolgerà all’interno del suo palinsesto il concorso teatrale Scintille.
La regia e l’adattamento di Gallione hanno preservato e enfatizzato il legame, già presente nell’ultima versione del testo di Fo, tra il messaggio eversivo del santo e l’opera di riforma delle gerarchie ecclesiastiche di Papa Bergoglio. Non a caso il papa argentino aveva assunto il nome di Francesco, in un’ideale continuazione del messaggio di una chiesa povera per i poveri e in linea con l’intento di papa Luciani, misteriosamente deceduto dopo aver espresso la volontà di riformare lo Ior.
Alla tematica riformatrice di “Lo santo Jullare…” si intreccia quella della fabulazione, della narrazione popolare che fa del racconto godibile e ridanciano un mezzo per irridere e svergognare i potenti. E allora il potere della risata e dell’affabulazione di Francesco che “di tutto il suo corpo faceva parola” diventa quello temuto da Jorge de Burgos de “Il nome della rosa” e quello dei joculatores medievali, perseguitati in quanto scandalosi buffoni.
Dighero si muove attraverso ricorsi storici, passa da un presente appena terminato (il pontificato di Bergoglio) al Medio Evo di Francesco e Innocenzo III, per affabulare con una narrazione in grammelot che fonde dialetti e coinvolge tutti i sensi. Anche lui, come il santo jullare, parla con il corpo, salta su sgabelli che diventano palcoscenici, trono papale, letto di morte. Entra nel racconto in modo carnale, condivide il fetore del porcilaio, l’ululato del lupo, il canto degli uccelli, il ribollire dell’acqua che si tramuta in vino (una storia, quella delle nozze di Cana, nella storia), il dolore di una sassata. E’ solo, ma, come un cantastorie, si moltiplica e crea un mondo lontano che diventa presente, mentre al presente si intreccia.
Alle sue spalle una scenografia (di Lorenza Gioberti) composta da due quinte di tela bianca su cui sono proiettate immagini e che, in trasparenza (il disegno luci è di Aldo Mantovani), rivelano lucine colorate come uccelli variopinti. Sono immagini delicate nella loro stilizzazione, essenziali nel suggerire alberi, croci, la luna piena, oppure nel riflettere l’ombra di Francesco/Dighero, enorme come la sua impronta nella memoria collettiva.
E’ un percorso attraverso una vita rivoluzionaria e attraverso una dimensione popolare incarnata nello sberleffo e nel racconto giullaresco. A filtrare grande storia, leggende, rimandi al presente, uno straordinario Ugo Dighero, già a suo agio nel precedente allestimento di “Mistero buffo”. La celebrazione dell’ironia de “La Preghiera del Buonumore” di Tommaso Moro (“…Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo…”), amata da Papa Francesco, conclude, con la leggerezza che solo ciò che ha peso può avere, una giullarata tanto ilare quanto fulminante nei suoi contenuti.