Autore Redazione
venerdì
22 Agosto 2025
13:22
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Cronaca - Alessandria

Confermata espulsione presunto imam carcere di Alessandria: sindacato lancia allarme radicalizzazione

Confermata espulsione presunto imam carcere di Alessandria: sindacato lancia allarme radicalizzazione

ALESSANDRIA – Era stato arrestato a maggio 2021 e condannato un anno dopo dal Tribunale di Torino a sei mesi di reclusione per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Bouchta El Allam, 46 anni, era detenuto ad Alessandria per reati legati agli stupefacenti, e, nel corso della detenzione, si era autoproclamato imam del carcere. All’interno della struttura aveva usato toni violenti nei confronti di ebrei e cristiani perché considerati nemici del popolo arabo. Espressioni che avevano portato all’accusa di istigazione a compiere atti di terrorismo.

Questo aveva determinato il decreto di espulsione firmato dal Prefetto di Torino. Il Tribunale di Torino aveva poi stabilito che l’uomo non potesse essere allontanato dal nostro Paese perché sposato con una donna di cittadinanza italiana. La Corte di Appello aveva, al contrario, confermato l’espulsione, specificando che nel caso di El Allam sussistono condizioni tali da giustificare la limitazione del diritto al soggiorno nonostante il matrimonio con una nostra connazionale. La Suprema Corte ha infine sottolineato come i reati contestati all’autoproclamatosi imam del carcere di Alessandria non prevedono le garanzie previste dalla Convenzione della Corte europea per i diritti dell’uomo, che tutelano il rispetto della vita privata e familiare.

La vicenda dell’espulsione del presunto imam del carcere di Alessandria Bouchta El Allam arrestato nel maggio del 2021 è un nuovo campanello d’allarme da non sottovalutare. Come sindacato abbiamo lanciato da tempo l’allarme sul rischio “radicalizzazione islamica” nelle carceri italiane dove sono presenti almeno 10mila detenuti di fede musulmana, anche se molte persone non dichiarano la propria fede per timore e in alcuni istituti anche il 60% della popolazione carceraria esistente”. A sostenerlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria Fsa,Cnpp e Spp, che sottolinea come “senza generalizzare sulla fede dei detenuti extracomunitari – in maggior parte provenienti dai Paesi del Nord Africa – la cosiddetta classificazione del livello di radicalizzazione dei detenuti islamici, così come è avvenuto sinora da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, non serve certamente a tranquillizzare il personale penitenziario che è impreparato alla gestione di questo problema e in generale al rapporto con detenuti extracomunitari del Nord Africa. La realtà è che sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e, soprattutto in questa fase di guerra in Medio Oriente, mostrare apertamente odio verso l’Occidente contro il personale penitenziario “infedele”. Lo stesso presunto imam – da non confondere con i 25 imam riconosciuti e ammessi nelle carceri – durante i suoi sermoni all’interno della struttura penitenziaria piemontese, aveva usato parole cariche di odio e violenza nei confronti di ebrei e cristiani, considerati nemici del popolo arabo e definiti “scimmie” e “maiali”, aveva invocato perché Allah li punisse con massacri di massa e aveva auspicato che il Vaticano venisse distrutto. Parole che gli erano costate l’accusa di istigazione a compiere atti di terrorismo.

Gli ultimi dati forniti dal Ministero alla Giustizia – sottolinea Di Giacomo – sono sicuramente superati da una situazione in forte evoluzione per il continuo e costante ingresso di cittadini extracomunitari di fede islamica nei nostri istituti penitenziari. Ma se è assolutamente chiaro chi sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre categorie entro cui sono collocati i detenuti ritenuti ‘radicalizzati’. Per questo è indispensabile sviluppare in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione “dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione. In carcere accade quello che già accade con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti. Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti extracomunitari ed islamici è più alto e dove si continuano a verificare episodi di aggressione al personale. Si tratta di un allarme lanciato da almeno un paio di anni dal Copasir che conferma la nostra tesi: il carcere è “terreno fertile” per i fenomeni di radicalizzazione perché accade quello che già avviene con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti con l’effetto che una volta usciti ci ritroviamo nelle nostre città con potenziali terroristi o appartenenti a violente gang di criminali specie nigeriane”. 

Per Di Giacomo “non basta più procedere attraverso il sistema superato di suddivisione dei detenuti di fede islamica in tre categorie -” segnalati”,” attenzionati” e” monitorati” – perché, se il “proselitismo” è il fenomeno più diffuso per la criminalità italiana e straniera in questo caso rappresenta la “scuola per nuovi terroristi”.

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