“Tendenzialmente i tuoi spazi non esistono”. I segnali per riconoscere che “non è amore” e la rete che salva dalla violenza
ALESSANDRIA – “Tendenzialmente i tuoi spazi non esistono“. Questo è uno dei messaggi che Giulia Cecchettin scriveva alle amiche prima di essere uccisa, a 22 anni, dall’ex fidanzato Filippo Turetta. Le frasi della ragazza padovana lette dall’attrice Giusy Barone restituiscono in modo crudo la grammatica della violenza, che spesso inizia cancellando libertà, autonomia, respiro. Ed è fondamentale riconoscere segnali di comportamenti che non sono “normali” e, soprattutto, che “non sono amore“. È questo il messaggio ribadito durante convegno organizzato dalla Questura di Alessandria in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. L’invito a non giustificare né minimizzare comportamenti aggressivi e violenti è arrivato diretto agli studenti della 3B del liceo Scientifico “Galileo Galilei” che hanno partecipato all’iniziativa, ma è esteso a tutti.
Per la Polizia quei comportamenti sono i “reati spia” – controlli ossessivi, minacce, isolamento, persecuzioni – che devono far riflettere sul tipo di relazione che si sta vivendo. Questo è il primo passo per contrastare un fenomeno che in provincia di Alessandria ha nomi, storie, ferite ancora aperte. Il primo nome ricordato dalle giornaliste della Stampa di Alessandria, Valentina Frezzato e Adelia Pantano, è stato quello di Elena Imarisio, uccisa nel 2004 dell’ex marito davanti al tribunale di Casale Monferrato dove i due erano attesi per un’udienza. Dopo di lei altre 18 donne sono state uccise negli ultimi 20 anni in provincia di Alessandria.
La percezione sociale della violenza di genere, ha spiegato il Questore Sergio Molino, è cambiata nel tempo. Fino a pochi anni fa lo stalking “non esisteva”: non perché non accadesse, ma perché mancava la consapevolezza e quindi strumenti concreti per intervenire in fretta. Oggi, accanto alle misure penali, c’è un’arma in più: l’ammonimento del questore, che consente di agire prima che la spirale degeneri. I dati indicano che circa l’80% delle persone ammonite non torna a reiterare comportamenti violenti, confermando quanto l’intervento precoce possa spezzare escalation pericolose. Ma, ha precisato Molino, la risposta repressiva da sola non basta: l’obiettivo è anche diffondere una cultura della prevenzione.
La violenza contro le donne è un fenomeno trasversale: non esiste età, istruzione o contesto sociale che metta al riparo. Lo ha ribadito l’avvocata Anna Ronfani, vicepresidente di Telefono Rosa Piemonte. L’associazione piemontese è al fianco delle donne dal 1993. All’epoca la parola “femminicidio” non esisteva e ancora fino al 1981 in Italia l’omicidio di una donna veniva spesso archiviato come “delitto d’onore”. L’avvocata Ronfani lo ha ribadito con chiarezza: femminicidio non indica il sesso della vittima, ma la ragione della sua morte. Una donna viene uccisa “perché non corrisponde più a ciò che un uomo pretende da lei”. Non è un raptus, l’omicidio è preceduto da campanelli d’allarme. La violenza cresce per gradi, e proprio quei segnali – di cui parlava il Questore – devono essere riconosciuti e denunciati. Ed è qui che entra in gioco l’idea degli “alleati”. Per Ronfani è necessaria anche un’alleanza tra generi: gli uomini che rispettano le donne sono la maggioranza, ma “parlano poco e spesso piano”. Se prendessero la parola con più forza, la lotta non apparirebbe come una guerra tra sessi, ma come una responsabilità comune.
I casi di violenza, purtroppo, non diminuiscono e hanno volti di donne sempre più giovani. Lo raccontano i dati di Telefono Rosa Piemonte, con 761 donne accolte e prese in carico e 5.116 contatti ricevuti. E lo stesso fanno i dati di me.dea Alessandria, che in questo 2025 ha già raccolto 280 richieste di aiuto, il 23% in più rispetto allo scorso anno. Numeri che, ha sottolineato la presidente me.dea Sarah Sclauzero, indicano anche una maggiore consapevolezza e un aumento della fiducia verso la rete di supporto.
Nel lavoro quotidiano dei servizi antiviolenza, le parole contano. Ronfani evita il termine “vittima” e preferisce “persona offesa” o “persona che ha fatto esperienza di violenza”. Non è una sfumatura: significa restituire soggettività e non ridurre una donna a ciò che ha subìto. La rete antiviolenza garantisce anonimato e riservatezza, accompagnando concretamente chi chiede aiuto: supporto legale e psicologico, presenza nei momenti più delicati – dall’ospedale alla denuncia – coordinamento con i servizi pubblici e sensibilizzazione costante sul territorio. È una rete che intercetta violenze fisiche, psicologiche ed economiche. C’è poi la violenza assistita, che coinvolge i figli. Non è necessario vedere un pugno per essere colpiti. Anche chi si chiude in camera per non sentire le urla, o rientra da scuola e trova la casa devastata, sta facendo un’esperienza di violenza. È un trauma che cresce nel silenzio domestico e lascia segni profondi.