9 Dicembre 2025
17:50
Pfas nell’aria: dallo stabilimento ex Solvay di Spinetta oltre metà delle emissioni italiane
ALESSANDRIA – PFAS non solo nelle acque, ma anche nell’aria che respiriamo. A raccontarlo è l’ultima inchiesta dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia, che ha analizzato i dati del Registro europeo Pollutant Release and Transfer Register (PRTR), in cui sono raccolti i valori delle emissioni di oltre 4 mila stabilimenti industriali italiani. Queste strutture, si legge del report, sono soggette all’obbligo di dichiarazione in merito a diversi inquinanti, “il che rende possibile fotografare il livello di emissioni per varie sostanze a livello nazionale“.
Secondo l’analisi, nessuna regione è del tutto estranea al fenomeno (con l’eccezione statistica della Calabria, dove i dati non erano disponibili alla pubblicazione del report). Ma la sproporzione è netta: il 76% delle emissioni italiane di F-gas – 2.863 tonnellate in 16 anni – è registrato in Piemonte, soprattutto nel Comune di Alessandria. Il restante 24% è distribuito tra Veneto (specie area veneziana), Lombardia e Toscana. Quote più basse, sì, ma tutt’altro che irrilevanti se si guarda al peso assoluto e agli effetti sulla salute.
Alessandria e Spinetta Marengo: “il cuore del problema”
La spiegazione della “anomalia piemontese” per Greenpeace è una sola: lo stabilimento chimico di Spinetta Marengo, storicamente Solvay e oggi Syensqo, rimasto l’unico impianto italiano a produrre PFAS. Nel 2023 da solo ha generato il 55% dell’intero inquinamento nazionale legato ai gas fluorurati, evidenzia il dossier. E non si tratta di un picco isolato: Greenpaece evidenzia che il primato dell’ex Solvay dura da 16 anni, con oltre metà delle emissioni italiane complessive imputabili allo stesso gruppo industriale.
Sulla sicurezza del C6O4, però, le contestazioni non mancano. Medicina Democratica sostiene che la tossicità acuta sarebbe simile a quella del PFOA (uno dei PFAS storici più pericolosi) e che mancherebbero studi adeguati sugli effetti a lungo termine. Dubbi rafforzati anche da ricerche indipendenti che indicano alterazioni biologiche negli organismi acquatici esposti alla sostanza.
“Questa continua immissione nell’ambiente di sostanze inquinanti porta con sé molti rischi per la salute delle persone e degli ecosistemi, soprattutto nei pressi degli stabilimenti più impattanti – si legge ancora nel report – Sono ormai diversi anni che l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA – European Environment Agency) mette in allerta sul fatto che le fonti di inquinamento da PFAS sono molteplici e si sommano tra loro: queste sostanze si diffondono «tramite il rilascio di acque reflue industriali» e, come spiegato in questo briefing, tramite «le emissioni in aria da parte di siti di produzione industriale»; la diffusione aerea determina anche «un conseguente deposito di PFAS su suolo e corpi idrici».
E c’è un’altra minaccia che viaggia con il vento: alcuni F-gas degradano in atmosfera trasformandosi in TFA, acido trifluoroacetico, oggi il PFAS più diffuso al mondo. Il TFA è persistente, mobile, si accumula nelle acque potabili e viene indicato recentemente come possibile tossico per la riproduzione. La sua presenza è stata trovata anche in acque minerali in commercio, con contaminazione rilevata in sei marche su otto analizzate da Greenpeace.
Il vuoto normativo italiano
Il quadro normativo, in Italia, resta fragile. Non esiste ancora una legge che vieti produzione e utilizzo di PFAS. Un passo avanti è arrivato sui limiti nelle acque potabili, ma per le emissioni in aria il Paese non ha un tetto nazionale. Ci si affida alle regole europee del Regolamento F-gas (2014, aggiornato nel 2024) che impone un phase down, cioè riduzione progressiva dell’uso di molte di queste sostanze entro il 2030. Ma controlli e sanzioni sono demandati agli Stati membri. E senza una risposta nazionale chiara, l’applicazione rischia di restare disomogenea e lenta.
Il dossier Greenpeace sottolinea infine una verità doppia: gli F-gas sono pericolosi per la salute e per il clima. Hanno un potenziale di riscaldamento globale migliaia di volte superiore alla CO2. Alcuni, come l’HCFC-22, arrivano a un impatto climatico stimato oltre 5.000 volte quello dell’anidride carbonica. ISPRA conferma che le emissioni complessive di gas fluorurati a effetto serra sono cresciute significativamente negli ultimi anni. Eppure le alternative esistono già: tecnologie e sostituti sono disponibili, studiati anche in Italia, e rendono queste emissioni in larga misura evitabili. Servono però scelte politiche rapide e un cambio di passo industriale.