20 Dicembre 2025
07:00
Un quadro, uno specchio. Recensione di “L’importanza di chiamarsi Ernesto” al Teatro Alessandrino
ALESSANDRIA – “Viviamo in un’epoca di ideali e il mio ideale è sempre stato amare qualcuno che si chiamasse Ernest”. In questa frase, che Oscar Wilde mette in bocca ad una sua protagonista femminile, stanno la superficialità, l’apparenza (ovvero l’assonanza in inglese del nome proprio Ernest con l’aggettivo onest) e le convenzioni della vita mondana. Ieri, venerdì 19 dicembre, alla Stagione Teatrale del Comune di Alessandria e Piemonte dal Vivo con Costruire Insieme, presso il Teatro Alessandrino, è stato presentato “L’importanza di Chiamarsi Ernesto” con la regia di Geppy Gleijeses e un cast prestigioso composto da Giorgio Lupano, Luigi Tabita, Maria Alberta Navello, Giulia Paoletti, Lucia Poli, Riccardo Feola, Bruno Crucitti e Gloria Sapio.
La trama è nota e racconta di due amici che, imbrigliati nella rete di convenienze dell’Inghilterra vittoriana, si inventano due vite parallele. E’ qui facile intuire, pur nella leggerezza raffinata di un umorismo intramontabile, la personalità di Wilde, costretto a sua volta a recitare un ruolo nella società del suo tempo. Così Jack Worthing/Giorgio Lupano si fidanza con Gwendolen/Maria Alberta Navello, facendole credere di chiamarsi Ernest (nome rassicurante e irresistibile), mentre Algernon/Luigi Tabita finge di essere il fratello di Jack (e di chiamarsi Ernest) per conquistare la di lui pupilla Cecily/Giulia Paoletti. Il taglio registico di Geppy Gleijeses mantiene l’ambientazione vittoriana, esalta l’ironia dei detti e non detti, sceglie di mantenere quella facciata di frivolezza che apre fessure nelle certezze. La fedeltà al testo e al contesto risultano una scelta azzeccata per una commedia che funziona per ritmo e incastro perfetto di dialoghi ed equivoci.
Wilde è evocato dal suo quadro preferito che campeggia appeso sulla scena, il San Sebastiano di Guido Reni, sofferente e bello di una bellezza androgina, mentre i due protagonisti maschili ironizzano sulla necessità di salvare l’apparenza e di raggirare la morale comune, poiché “l’alto tono morale non porta alla felicità”. L’Algernon di Luigi Tabita è squisitamente decadente, mentre il Jack di Giorgio Lupano ha i molti volti dell’innamorato zelante, del tutore irreprensibile e del libertino. Si compensano perfettamente nei loro dialoghi, creando, di volta in volta, un’intesa brillante, una rivalità che degenera nei momenti più spassosi e, infine, una serie di colpi di scena.
Al disincanto maschile si contrappone la costruzione ideale femminile, infatti le due protagoniste vivono entrambe in un mondo di apparenze e di idee. Maria Alberta Navello convince nella parte di Gwendolen per l’arguzia dialettica fondata su preconcetti, mentre Giulia Paoletti dà la giusta naturalezza alla sua Cecily, immersa in un universo di fantasticherie. Intorno a loro le figure del reverendo/Bruno Crucitti e dell’istitutrice/Gloria Sapio, essenziali all’evoluzione della vicenda, ma anche protagonisti di una sottotraccia amorosa dal registro decisamente comico, e il contrappunto ironicamente compito del maggiordomo/Riccardo Feola.
Infine Lucia Poli nella parte della madre di Gwendolen, decisamente il centro focale della scena. Voce accomodante, fare teatrale e imperativi assoluti fanno della sua Lady Bracknell la vera rappresentante dell’ottusità della società del tempo, delle sue restrizioni e della pochezza delle sue regole. L’autorevolezza con cui pronuncia affermazioni insignificanti e talvolta crudeli ricorda la vuota perentorietà di certe discussioni sui social o di alcune trasmissioni televisive. Tutto ciò senza nessuna necessità di mutare o adattare il testo originale, grazie al valore aggiunto di un classico ben interpretato.
Tutto procede in un crescendo di ritmo e si risolve, sullo sfondo di un giardino che pare una foresta notturna (le scene sono di Roberto Crea), con una rivelazione finale in stile mystery, accompagnata da un tappeto sonoro inquietante che stride comicamente con gestualità e dialoghi. L’apparenza e le necessità reali non possono coincidere e tutto contrasta, come la bellezza conturbante del San Sebastiano e il suo dolore, come la frivolezza e la serietà, ma tutto vive in quella che è stata definita “la commedia perfetta”, in quanto profondamente umano. E allora il quadro prediletto di Wilde è uno specchio che incombe anche quando muta la scena e in cui si riflettono l’autore, la sua opera e l’importanza di essere Ernesto/onesto dei suoi protagonisti, decadenti, superficiali, eppure desiderosi di rivelarsi.