5 Maggio 2019
11:35
Il potere delle parole. Recensione di “La signorina Papillon” al Teatro Ambra
ALESSANDRIA – Stefano Benni ha immaginato “La signorina Papillon” nel piccolo mondo del suo giardino alla periferia di una Parigi fin de siècle, con forti allusioni al presente. E’ in un giardino stilizzato e mutevole nel perimetro che, sabato 4 maggio, la Compagnia della Juta ha ambientato il testo dello scrittore bolognese, presentato, dopo il debutto sold out al Teatro della Juta, in un Teatro Ambra affollatissimo, per la rassegna Ambra di Teatro. La regia di Luca Zilovich ha puntato sull’attualità dell’ironia di Benni, assolutamente divertente, ma anche amara nelle chiare allusioni alla cupidigia, alla corruzione e al desiderio di potere e arricchimento. Rose Papillon (ignara degli intrighi di potere, ma con una sfumatura volitiva nell’interpretazione di Federica Cardamone) è circondata da due corteggiatori insistenti e dall’amica Marie Louise, cui la notevole Giulia Maino rende tutto il cinismo esilarante dell’autore. La sua vita si svolge in un’apparente tranquillità, turbata dalle irruzioni delle notizie parigine, filtrate e deformate dai racconti dei suoi visitatori, interessati a lei per fini personali. La sfilata continua del visconte Armand (un Michele Puleio arrogante, vanesio e manipolatore al punto giusto) e del vacuo e arrivista poeta-giardiniere Millet (Giacomo Bisceglie) è segnata dallo scorrere delle paratie mobili della palizzata del giardino della bella scenografia di Massimo Martinis. Lo spazio muta esattamente come la visione della realtà, deformata dalle informazioni spesso chiaramente false (Parigi innevata in giugno), altre volte dubbie e da valutare. Il valore dei grandi testi sta nella loro verità distillabile sempre e il potere delle parole, rappresentato ne “La signorina Papillon”, è quanto mai attuale oggi, nell’epoca dei social e della condivisione simultanea. Le parole nascondono odio, indifferenza, arrivismo e violenza. Armand parla di presunti “costoro” che «assediano le nostre coste, spargono virus e guardano le nostre donne»; nelle sue affermazioni emerge una violenta superficialità di giudizio facilmente riconoscibile ogni giorno. Ma non tutto è così semplice, la corruzione non si oppone all’innocenza tout court, perché lo stesso giardino di Rose è decadente: lei stessa, forse in sogno, ma forse no, potrebbe essere già toccata dall’avidità e, non a caso, il sottotitolo della pièce è “nel paese dei brutti sogni”. L’atmosfera onirica fa dei personaggi dichiarate macchiette, che si dileguano in un finale sfumato (bellissima la musica da sogno inquietante di Raffaello Basiglio), dove l’unica possibilità di libertà di pensiero sta nel silenzio e nell’originalità dell’idea: “E se hai un sogno non dirlo, tienilo segreto. Fermalo… alla soglia delle frasi”. Un allestimento curato nei minimi particolari per la Compagnia della Juta che si sta dimostrando una realtà sempre più propositiva e vitale. In parte e affiatati i protagonisti, un cast giovane dove al bravo Michele Puleio (da anni collaboratore di Zilovich) si sono affiancati per la prima volta Giulia Maino, Federica Cardamone, Giacomo Bisceglie. Proprio a quest’ultimo si deve un taglio particolarmente originale nell’interpretazione di Millet, improntato alla gestualità della commedia dell’arte, appresa alla prestigiosa Académie Internationale Des Arts du Spectacle e ben sfruttata dalla regia di Zilovich. Le “simpatiche macchiette” o “assassini” fondono il loro lato grottesco con quello della maschera e, anche grazie a questo trait d’union, che vede la sintesi in Bisceglie, si tocca un vertice di assolutezza.