Autore Redazione
martedì
23 Dicembre 2014
14:35
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Cronaca - Alessandria

Tra gli ‘Ebola fighters’ c’è anche un alessandrino

Tra gli ‘Ebola fighters’ c’è anche un alessandrino

ALESSANDRIA – Il Time li ha definiti i personaggi dell’anno. Sono gli ‘Ebola fighters’ coloro che “hanno rischiato e insistito, si sono sacrificati e hanno salvato delle vite“. Tra quanti combattono il virus letale c’è anche un alessandrino, Flavio Salio, ingegnere di Save the children, da anni impegnato in prima linea per aiutare il prossimo.

A inizio dicembre anche lui (insieme a Chiara Maretti di Medici con l’Africa, Rossella Miccio di Emergency, Gianfranco Rotigliano di Unicef, e Roberto Scaini, Medici senza frontiere) ha partecipato all’incontro “Ebola, gli italiani che sfidano la paura” organizzato dalla Camera dei Deputati. Flavio Salio ha raccontato la sua esperienza di coordinamento nella lotta al virus letale spiegando però “che quando si fanno queste scelte di vita non si pensa alla paura ma alla consapevolezza di quanto si fa. Per l’Ebola si è consapevoli che il bisogno di agire è immediato e occorre muoversi. Da qui l’esigenza di andare nei paesi colpiti dall’Ebola”. Flavio Salio ha studiato Ingegneria, ha terminato gli studi all’Università di Barcellona e poi ho maturato l’idea di fare qualcosa di diverso rispetto al rimanere a lavorare all’Università. “Ho cominciato a fare il volontario della Croce Rossa e mi sono avvicinato al settore per poi frequentare un master in peace keeping management e quindi da lì è nata la mia avventura in Bosnia e poi per Medici Senza Frontiere”.

Adesso si occupa del coordinamento delle operazioni di Save the Children per tutto il continente Africa attraverso le relazioni con tre uffici regionali che Save the Children ha in quel continente che ha bisogno di essere aiutato anche perché “l’Africa è conosciuta solo quando succede qualcosa, soprattutto di spiacevole. Quello che si vive ancora oggi dimostra che la mortalità infantile è la più alta al mondo. Solo la zona subsahariana occupa un terzo di tutta la mortalità infantile mondiale“.

“Oggi sono a Londra – ha raccontato a Radio Gold News Flavio Salioall’interno dell’ufficio di Save the Children International, ma ho fatto diverse missioni, anche quest’anno. Sono stato nel Sud Sudan dove si è consumato un violento conflitto, nella repubblica Centraficana dove si è consumato un altro conflitto alla fine del 2013, e oggi da più di tre mesi mi occupo dell’Ebola e delle operazioni di coordinamento e infatti sono rientrato dalla Liberia circa un mese fa”.
Flavio Salio ha infine commentato così il riconoscimento arrivato dal Time, quello per cui coloro che spendono la propria vita per la lotta al virus sono da considerarsi personaggi dell’anno: “mi riconosco in parte in questa definizione. Ho fatto qualcosa in una situazione molto critica. Io quando sono arrivato in Liberia, ad agosto, ho visto uno scenario molto critico, c’erano corpi per strada, cliniche chiuse, la paura, mentre oggi quello che ho lasciato è un quadro diverso, lascia un minimo di speranza, e ci fa capire che siamo davanti a qualcosa di serio e importante e che ha bisogno di tutti”.
Di seguito riportiamo l’articolo del Time in sui si spiega perchè agli ‘Ebola fighters’ è stato attribuito il riconoscimento di uomini dell’anno:

Per decenni il virus ebola ha ossessionato i villaggi rurali africani come una specie di mostro mitologico che a intervalli di anni chiedeva un sacrificio umano e poi tornava nelle sue caverne. Ha raggiunto l’Occidente solo sotto forma di incubo, una specie di dramma hollywoodiano che faceva sanguinare gli occhi, che scioglieva gli organi e faceva disperare i medici.
Ma il 2014 è stato l’anno in cui il contagio episodico si è trasformato in un’epidemia, anche a causa dello stesso progresso che ha permesso di costruire città e strade e sollevare milioni di persone fuori dalla povertà. Questa volta ebola ha raggiunto le baraccopoli della Liberia, della Guinea e della Sierra Leone; ha viaggiato in Nigeria e in Mali, in Spagna, in Germania e negli Stati Uniti. Ha coinvolto medici e infermieri in quantità senza precedenti, cancellando infrastrutture sanitarie pubbliche che erano già debolissime. In un giorno di agosto, in Liberia, sei donne incinte hanno perso i loro bambini perché gli ospedali non potevano ricoverarle. Chiunque volesse curare i malati di ebola correva il rischio di diventarlo.
Questo ci porta ai cuori dei nostri eroi. Non c’era molto che si potesse fare per ostacolare la diffusione della malattia. I governi non erano adeguatamente equipaggiati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha perso tempo. I primi soccorritori sono stati accusati di gridare “al lupo”, anche quando la situazione si stava deteriorando. Ma le persone sul campo, le forze speciali di Medici Senza Frontiere, di Samaritan’s Purse e di molte altre organizzazioni umanitarie da tutto il mondo hanno combattuto fianco a fianco con i medici e le infermieri sul posto, con gli autisti delle aumbulanze e con chi si occupava delle sepolture.
Chiedetegli perché lo hanno fatto. Alcuni parleranno di Dio, altri della patria, altri dell’istinto innaturale che li porta a correre verso il fuoco e non lontano dal fuoco. «Se qualcuno dall’America viene ad aiutare il mio popolo, e qualcuno anche dall’Uganda», ha detto un infermiera liberiana, Iris Martor, a Liberian nurse, «perché non dovrei farlo io?». Foday Gallah, un autista di ambulanza che è sopravvissuto alla malattia, dice che la sua immunità adesso è un dono divino. «Voglio dare il mio sangue per salvare le persone», dice. «Ho intenzione di combattere ebola con tutto me stesso».

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