15 Marzo 2020
08:03
Là fuori il silenzio, negli ospedali la voglia di vincere il virus ma anche la fatica e la paura
PROVINCIA DI ALESSANDRIA – Il silenzio riempie le strade delle città della provincia, alcuni magari sfidano anche le regole impartite per l’incolumità di tutti, ma mentre ci si lamenta per questo scenario desolante, che ha cambiato le nostre vite, negli ospedali di tutto il Piemonte non c’è tempo per pensare. Ogni secondo è fibrillazione, tensione, stanchezza, rischio. Medici, infermieri, personale sanitario non si fermano un attimo, la maggior parte di loro ha solo la ferrea intenzione di salvare vite. Punto. Non ci sono più orari, spesso i sistemi di protezione non esistono o sono inadatti e quindi una sorta di inutile appiglio psicologico. In corsia il silenzio che si respira fuori non si sente, non c’è tempo. E poi, quando si torna a casa c’è la paura di essere un rischio per i familiari, da cui si vive a debita distanza, sperando di non aver portato a casa il male che oggi si combatte. Questo è quanto emerge da molte strutture della provincia. La fatica, lo smarrimento, la stanchezza ma anche una richiesta di aiuto, di sostegno, così come di una maggiore consapevolezza a tutti i livelli di cosa significhi oggi affrontare il coronavirus. Senza dimenticare che in mezzo a tutto questo ci sono anche i pazienti, soli davanti a un futuro fragilissimo, isolati dal resto del mondo così come dai cari, spesso, a loro volta, in quarantena. La situazione è dura, difficile, tesa e dolorosa. Lo testimoniano alcuni pensieri e considerazioni arrivati in redazione da diverse persone impegnate in prima linea nelle strutture del territorio. Eccole:
“Stiamo affrontando una grande emergenza, una vera emergenza. Siamo allo stremo delle forze ma vogliamo sconfiggere il coronavirus”
“Ci hanno ordinato a pensare che è tutto sotto controllo. Forse perché nessuno di chi ci sta ordinando ha mai visto soffrire e morire poco a poco una persona. Stanno cercando di convincerci che chi ci lascerà sarà di sicuro anziano e già malato. Come se non sapessero che stanno soffrendo e dolorosamente combattendo anche i meno anziani. Tutte affermazioni che andrebbero viste calandosi nei panni di chi le sta subendo. Perché poi se i pazienti diventano i loro padri o nonni anche chi impartisce questi ordini cambia approccio e si preoccupa. Il nostro compito fondamentale è cercare di salvare tutti.
Ci dicono in continuazione, come un mantra, forse anche per autoconvincersi di una “non verità”, di non credere che lì, dentro a quelle sale adibite come si può, dove noi entriamo e usciamo di continuo, siano presenti degli appestati o ancor di più dei positivi al tampone del covid-19, affermando che si tratta solo, dei ‘normali pazienti intubati.’.
Con poche misure di sicurezza e dpi (dispositivi di protezione individuale insufficiente) dobbiamo entrare e uscire da pseudo-sale di terapia intensiva o recovery room per continuare a svolgere il nostro lavoro di tutti i giorni e le notti di operatori sanitari. Dobbiamo svolgere le nostre mansioni e passare da un luogo a un altro di operatività lavorativa, di continuo, col rischio, se il pericolo di infezione esiste, di aumentarlo questo pericolo con il nostro agire. Perché come professionisti di ogni categoria sanitaria, impegnati e a contatto con le malattie, abbiamo, se impiegati oltremodo e inopinatamente in assenza di una organizzazione attenta, molte più probabilità di portarla dappertutto questa pericolosa epidemia.
Molti di noi indossano solo un grembiulino di carta seta addosso, un paio di guanti e una inutile mascherina. Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a garantire la sicurezza di non infettare o infettarsi, mentre tutti gli scienziati mondiali urlano a tutti di proteggersi adeguatamente perché il pericolo è reale. E di questo non si può discutere per non fare allarmismo inutile.
Molti di noi svolgono il proprio dovere senza bisogno di ordini, senza remore, con abnegazione e mettendo a repentaglio la propria salute personale per difendere quella della comunità, essendo ben consci e non ignorando la situazione. Altri invece obbediscono meramente o fanno finta di nulla a direttive assurde, forse con la speranza di un tornaconto futuro. Chi negli ospedali o in altre strutture ha ordinato delle disposizioni di servizio è rimasto nell’ombra e chi è stato delegato a passarle scrivendole a chi lavora in prima linea si è firmato in molti casi con delle sigle. Pochi, forse, hanno ben compreso la pericolosità del momento oppure si credono immuni e immortali, o ancora al riparo in uffici o a casa anziché qui in trincea.
Chi si ammala viene esortato di guarire presto e se anche la sua malattia potrebbe essere un caso di contagio, nonostante lavori in sanità, non viene controllato con un tampone, probabilmente per risparmiare. Così avviene che in guarigione o in assenza di sintomi specifici si continui a mettere a rischio colleghi, pazienti e propri famigliari.
Il nostro lavoro è difficile, sempre di più, noi ci auguriamo che almeno il virus sia clemente, consapevole della nostra fragilità.”