18 Marzo 2020
01:10
Il coronavirus e il suo silenzio: la solitudine che giace in un letto
PROVINCIA DI ALESSANDRIA – Il sole fuori dagli ospedali, quella sensazione di calore sulla pelle, anche se vissuta da un balcone o una finestra. Una carezza del vento, il silenzio che arriva alle orecchie e lo sguardo che scappa verso un orizzonte lontano, distratto da palazzi, colline, perfino le montagne, anche se sempre costretti nelle nostre 4 stanze. E nonostante tutto la netta sensazione di essere vivi. Questa la vita di molti di noi oggi.
A pochi chilometri invece un altro quotidiano in un reparto di ospedale: una stanza, una persona colpita dal coronavirus con lo sguardo conficcato su un neon pallido. Il frastuono delle macchinette, fastidioso quanto essenziale, l’orecchio teso sul respiro, faticoso, doloroso. L’arrivo di un infermiere è l’unico momento di contatto con una persona. Gli sguardi si incrociano e in quel letto si vedono gli occhi di chi nutre una riconoscenza commovente unita alla paura. Il letto è una prigione, vissuta senza il conforto di nessuno.
In quella stanza molti ci sono finiti all’improvviso, senza neanche il tempo di rendersene conto. Spesso dopo una crisi respiratoria che ha fratturato alcuni momenti di vita, senza poter gettare una parola a figli, genitori, amici. I loro occhi si sono chiusi mentre il sedativo faceva effetto e contemporaneamente i tubi facevano il loro dovere.
Chi è colpito dal coronavirus si imbatte in persone che sembrano alieni le fattezze umane svaniscono e percepisce immediatamente la distanza dal resto del mondo, catapultato in una realtà che non ha più nulla di normale. I colori vengono divorati da luci lattiginose, gli abbracci sono solo quelli di tubi e tubicini, le parole sono quelle di un personale medico sempre costretto all’affanno, nel disperato tentativo di tenerti in vita, e senza neanche la possibilità di far arrivare loro un grazie fragoroso. Null’altro. Intorno il vuoto. Intorno il velo di plastica trasparente di un respiratore che intontisce per il suo rumore, mentre i tappi nelle orecchie per attutire quel frastuono fanno rimbalzare i pensieri nella testa.
Per i pazienti intubati ogni parola è uno sforzo tremendo e il risultato è quasi sempre una frase pressoché incomprensibile, proprio nel momento in cui vorresti dire centinaia di cose. Mentre l’unico contatto con l’esterno e con il quotidiano giace fuori da una porta: pigiami, biancheria e “cazzate varie”. Perché tutto il resto in quel momento è una cazzata. Su quel letto, da soli, forse, si sente il bisogno solo di una carezza e del conforto di una parola di chi ti ama. Che qualcuno dicesse che “andrà tutto bene”, anche se non è vero. Anche se poco più in là c’è una persona che è nelle tue stesse condizioni, segnata da tre lettere “ncr”, non candidata alla rianimazione. Cioè condannata a morire.
Ogni giorno è una battaglia. Lo è per chi combatte in corsia il nemico che non recede e per chi è finito su quel letto, circondato dal silenzio.
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