27 Gennaio 2022
05:00
Giorno della Memoria: “Ancora oggi ho l’incubo dei nazisti e dei fascisti alle calcagna”
CASALE MONFERRATO – Adriana Torre Ottolenghi lo ripete più volte quando ricorda gli anni della persecuzione degli ebrei. Lei è stata “fortunata”. Non ha vissuto “l’orrore dei campi di concentramento“ e “per questioni anagrafiche” non subì “l’umiliazione” di essere espulsa da scuola perché ebrea.
Da bambina, però, Adriana non è praticamente “mai andata” a scuola, è stata costretta a scappare, a nascondersi, ha perso persone care e ha vissuto la paura “solo perchè ebrea”. E ancora oggi, nelle notti inquiete è sempre lo stesso incubo a tornare a svegliarla: “Dopo quasi 80 anni ho ancora l’incubo dei nazisti e dei fascisti alle calcagna”.
Dopo il matrimonio, 63 anni fa, con Giorgio Ottolenghi, presidente emerito della comunità ebraica di Casale Monferrato, Adriana é diventa “casalese” e insieme al marito ha sempre tenuto viva la memoria, oggi anche come consigliera della comunità guidata dal nuovo presidente Elio Carmi. “L’orrore non va dimenticato”, ha sottolineato e la memoria “va tramandata”. “Quando qualcosa non ci tocca personalmente ci giriamo dall’altra parte. L’indifferenza, però, è pericolosa”.
“Nell’indifferenza generale” passarono in Italia le leggi razziali. Adriana era piccola ma furono proprio quelle leggi a impedirle di andare a scuola. Il primo anno delle elementari seguì le lezioni organizzate dalla comunità ebraica a Milano. Poi, quando i bombardamenti sulla città costrinsero la famiglia a spostarsi a Verzate fu la nonna a insegnarle il resto. Aveva 9 anni quando, nel 1943, dovette rifugiarsi nel convento di clausura delle Benedettine di Ronco di Ghiffa, sul Lago Maggiore.
I suoi genitori erano venuti a sapere degli ebrei trucidati a Meina. “Avevano paura e trovarono un luogo sicuro per me, mia sorella e mia nonna mentre loro tornavano a Milano in cerca una via di fuga verso la Svizzera”. Quella strada si chiuse e la famiglia di Adriana non superò il confine. “Non era pensabile per due bambine e una donna anziana attraversare le montagne”. Restarono in Italia, a Trarego, e si salvarono grazie a una donna “che rischiò la sua vita, quella del marito e della figlia”, per salvare la famiglia di Adriana.
Anna Bedone Ferrari era una giovane maestra delle elementari che lavorava anche come aiuto-segretaria in Comune. Era una donna che “non girò la testa dall’altra parte”. Il suo nome, insieme a quello del marito, è nell’elenco dei Giusti d’Italia. “Ci nascose e rifece i nostri documenti. Tolse la scritta “di razza ebraica” e modificò i nostri nomi per celare ogni traccia delle nostre origini. Fu così che mio padre da Abramo divenne Antonio e il cognome di mia nonna, Ottolenghi, divenne Ottolini. Fu così che salvò me, mia sorella, i miei genitori, mia nonna e due mie zie”.
Adriana si sente “una privilegiata” perché in quei terribili anni non rimase sola. La guerra e l’orrore della Shoah hanno però lasciato “vuoti enormi” nella sua famiglia e anche nella famiglia del marito.
Giorgio Ottolenghi aveva 20 anni quando riuscì a raggiungere la Svizzera. Oggi ne ha appena compiuti 99 ma ricorda ancora perfettamente la notte del 5 dicembre del 1943: “Attraversammo il confine da Chiavenna, con l’aiuto della Guardia di Finanza”. E fu solo allora che sentì il nodo della paura allentarsi.
Il presidente emerito della comunità ebraica casalese ricorda con chiarezza anche i primi anni delle leggi razziali “e gli insulti che venivano scritti sui giornali”. A Casale quegli anni passarono per lui “quasi bene”. La sua famiglia non subì atti violenti: “Diciamo che eravamo tollerati”. Il padre perse però il lavoro: “Da quel momento la nostra situazione economica cambiò radicalmente. Riuscivamo comunque a mangiare tutti i giorni”.
Giorgio fu allontanato da scuola ma continuò gli studi da privatista. “Mio papà mi fece fare gli esami di passaggio tutti gli anni. Era un’ottimista. Mi diceva: Vedrai che se ne andranno presto e quando succederà sarai a posto con la scuola”. Dopo l’8 settembre del 1943 la situazione divenne poi “molto difficile” e la famiglia fu costretta a nascondersi. Si rifugiarono nell’Astigiano ma dopo qualche tempo il proprietario di casa ebbe paura e li mandò via. La famiglia Ottolenghi trovò però un contatto che li aiutò a superare il confine.
Anche Giorgio Ottolenghi si sente “un fortunato”: “Io sono stato il primo a scappare della mia famiglia. Vista la mia età ero in doppio pericolo perché potevo essere fermato per resistenza alla leva e perché ebreo. Se non avessi superato il confine sarei certamente finito ad Auschwitz”.
Giorgio Ottolenghi tornò poi a Casale qualche mese dopo la fine della guerra. Altri ebrei casalesi non tornarono mai più. Furono 63 i deportati, 59 da Casale e 4 da Moncalvo. “Già prima della guerra molti giovani erano andati a lavorare fuori. C’erano, però, ancora un centinaio di persone. Al nostro ritorno ritrovammo invece solo altre tre famiglie”.