Autore Redazione
lunedì
7 Febbraio 2022
15:09
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Cronaca - Piemonte

Tra paradosso e lirica. Recensione di Miracoli metropolitani” al Teatro Alfieri

Un fiume di meritatissimi applausi per l’ultimo spettacolo della Carrozzeria Orfeo alla stagione teatrale astigiana
Tra paradosso e lirica. Recensione di Miracoli metropolitani” al Teatro Alfieri

ASTI – E’ un’eccellenza la stagione del Teatro Alfieri di Asti e, al suo interno, spiccano delle gemme della drammaturgia contemporanea come “Miracoli metropolitani”, di Gabriele Di Luca, anche regista con Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, presentato ieri 6 febbraio dalla Carrozzeria Orfeo. La compagnia è ben nota al pubblico astigiano, che ha potuto, sin dalla trentottesima edizione di sei anni fa di Asti Teatro, apprezzare i precedenti Thanks for vaselina»,  «Animali da bar» e «Cous Cous Klan». In ognuno di questi lavori si è affermata la personale poetica della Carrozzeria Orfeo, già suggerito dal suo nome, dove il termine concreto di Carrozzeria è abbinato ad Orfeo, simbolo stesso della lirica. I punti fermi sono la causticità, la risata contrapposta alla rappresentazione drammaticamente realistica e un mondo che ricorda “Brutti sporchi e cattivi” ma si eleva ad un afflato poetico.

In Miracoli Metropolitani c’è una situazione distopica, dove un ingorgo nelle fogne, causato dagli innumerevoli scarti di un consumismo esasperato, fa traboccare liquami ovunque, dove l’umanità vive reclusa in casa, ma soprattutto chiusa in un egoismo individualistico e in un odio verso il prossimo che sfocia in razzismo e derive sovraniste. In questo universo di solitudine imbruttente i protagonisti, in una ex carrozzeria fatiscente riadattata a cucina, preparano pasti take away spacciati come bio per salutisti, intolleranti, clienti sempre più esigenti ma con pretese di risparmio, come il mercato globale impone.

E’ un inizio in piena azione forsennata che coglie lo spettatore: una raffica di battute cesellate con il bisturi che immergono in una comicità irresistibile, che tuttavia introduce argomenti sinistri, come la catastrofe ambientale, la rabbia collettiva che si volge in xenofobia (il videogioco “Affonda l’immigrato” è, al contempo, esilarante e drammatico), l’arricchimento a tutti i costi. I protagonisti popolano un mondo letteralmente invaso dal liquame fognario e vivono loro stessi in un inferno di delusioni, mancanze e solitudine. Sono persone, ma la loro dimensione umana emerge lentamente, con un approfondimento che a tratti squarcia la risata e muta registro, per poi virare improvvisamente e ritornare al caustico. La frustrazione di Cesare (Massimiliano Setti), chef stellato, costretto a preparare presunte leccornie da asporto per celiaci con ingredienti spazzatura, emerge con il turpiloquio, per poi svelare una personalità segnata e una necessità affettiva. Così sua moglie Clara (una sempre strepitosa Beatrice Schiros), ex lavapiatti e ora donna in carriera alla ricerca di followers sui social, è un personaggio che incarna ipocrisia arrivista e, solo alla fine, si mostra capace di amare. Intorno a loro e al figlio Igor (un Federico Gatti teso tra incomunicabilità e rabbia cieca) una pletora di disadattati, infelici, delusi, arrabbiati, che gridano, odiano, si interfacciano senza mai comunicare, chiusi in un dramma che si mostra in forma comica, suscita scoppi di risa e anche raggela. Ci sono l’ex brigatista e femminista (Elsa Bossi), votata a salvare tutti tranne che il figlio Cesare, e la lavapiatti etiope (Ambra Chiarello in un’interpretazione sfaccettata e tutt’altro che buonista), determinata a sopravvivere con ogni mezzo dopo tanta sofferenza, ma anche l’aspirante suicida (Federico Vanni), cui si devono squarci filosofici illuminanti, il carcerato-attore in semilibertà e il rider, professore universitario nel suo paese e qui costretto ad un lavoro sottopagato e schiavizzante (entrambi interpretati, grazie ad un riuscito escamotage, da un pirotecnico Aleph Viola).

La chiave ironico-caustica permette di aprire tanti argomenti, quasi non lascia il tempo di riprendersi da un passaggio e già il cambio di registro destabilizza e trasporta altrove. Al fondo di tutto tante solitudini, vite disastrate e personalità che annegano in una società autodistruttiva e sempre più ottusamente crudele. La scrittura di Di Luca è lucida e spietata, le sequenze sono velocissime e paiono cinematografiche, il realismo è travestito da paradosso ed è sottolineato anche nei particolari, come il vero cibo manipolato dai protagonisti. Tutto ciò con un cast formidabile, capace di valorizzare ogni singola sfumatura, divertire alle lacrime e fulminare letteralmente il pubblico, in un crescendo che dall’inferno va a sfiorare la poesia, man mano che le personalità si mostrano. In un mondo ridotto a fogna, dove i singoli destini appaiono assurdi, ci sono più chiavi di lettura e una, suggerita per bocca, anzi penna, del professore aspirante suicida, è quella del Sisifo di Camus. Sisifo, costretto a trascinare eternamente un masso che sempre rotolerà a valle, è un mito assurto ad immagine dell’assurdità del vivere, ma “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”, dice Camus. Nello sfacelo di un finale che non può essere rassicurante, il miracolo sta in qualche sporadico istante di presa di coscienza, nella capacità di dirigere il sia pure assurdo destino e fare, almeno una volta, una scelta giusta.

La stagione del Teatro Alfieri di Asti è consultabile a questo link: https://www.teatroalfieriasti.it/

 

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