Autore Redazione
sabato
11 Giugno 2022
11:42
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Cronaca - Alessandria

La tragedia e le sue tonalità. Recensione di L.E.A.R. al Teatro San Francesco

Sold out per l'allestimento da Re Lear di Shakespeare della Compagnia Stregatti firmato dalla regia di Gianluca Ghnò
La tragedia e le sue tonalità. Recensione di L.E.A.R. al Teatro San Francesco

ALESSANDRIA – “C’era una volta un re“. Inizia come e con una filastrocca “L.E.A.R. – Leave Eyes At Rest”, la rilettura da Re Lear di Shakespeare della Compagnia Stregatti, con l’adattamento e la regia di Gianluca Ghnò.  Lo spettacolo ha debuttato ieri venerdì 10 giugno nel tutto esaurito Teatro San Francesco a conclusione della stagione “Suoni – Vibrazioni in movimento”, mentre nell’ambito del Progetto Ibsen di teatro di comunità, che la compagnia di Gianluca Ghnò e Giusy Barone porta avanti da anni sul territorio, domenica 12 giugno sarà in scena uno studio da “Peer Gynt” della giovane compagnia Stregatti under 18 e sabato 18 e domenica 19 giugno uno studio da “Un nemico del popolo”, del corso adulti avanzato.

Re Lear è un’opera enorme, che tocca grandi temi, come il rapporto tra padri e figli, il potere, l’avidità e la follia, ma anche l’amore e il sacrificio. La trama è complessa e comprende due vicende familiari parallele e intrecciate. Il dramma di re Lear, che abdica a favore delle figlie in proporzione all’amor filiale che queste gli millantano, si rispecchia in quello del conte di Gloucester, che, con pari ingenuità e cecità affettiva, viene ingannato dal figlio illegittimo Edmondo e ripudia l’onesto Edgardo. Tanti personaggi e tanti intrighi rendono Re Lear non semplice da rappresentare e meno appetibile di altri testi shakespeariani, ma anche una sfida registica importante. L’allestimento firmato da Ghnò fraziona il testo, lo segmenta e compatta in sei capitoli, preceduti da un’introduzione per lo più poetica, talvolta dissacrante. Il tono è canzonatorio nella filastrocca iniziale, dove il re “si credeva intelligente, ma non sapeva quasi niente”, per prendere poi la tinta della lirica oscura di William Blake o di quella profetica di Gibran. Ogni capitolo è annunciato con il suo titolo e viene contestualizzato dalla narratrice Assunta Floris, a turno affiancata  dagli altri protagonisti, che con leggerezza prende per mano il pubblico attraverso le pieghe della trama. Perché questo Lear ha tante angolazioni. Rispetta il testo originario (versi e prosa sono giunti immutati nel tempo e così sono pronunciati), ne estrae le parti più significative e le collega con una cerniera ariosa ma pertinente. Su una pedana in legno centrale si svolgono i dialoghi, mentre nel resto della scena prende corpo la narrazione e gli attori indossano a turno gli abiti che caratterizzano i ruoli. Pochi ruoli sono ricoperti da un solo attore e, tra questi, il buffone di Assunta Floris, che pare un folletto irrequieto uscito da una favola per dare sostanza alla coscienza di Lear, e il Conte di Kent di Claudio Vescovo, credibile nella devozione e nella fedeltà più pura. Gli altri personaggi si arricchiscono di un’interpretazione a più voci, che evidenzia sfaccettature sottili e apre spiragli riflessivi. Così il re è interpretato nella sua possenza e vanità, nel momento della spartizione del regno alle tre figlie, da Luca Bertolotti, che ritornerà a indossare il mantello regale in un crescendo di ira e di follia. Nella delusione e nell’umiliazione, una volta ottusamente consegnati tutti i suoi possedimenti alle figlie Gonerilla e Regana (a turno interpretate da Giusy Barone, Stefania Cartasegna e Simona Gandini), sarà David Turri a impersonare la sconfitta di Lear in quanto padre e sovrano. Il testo, sfrondato dei personaggi secondari e dei passaggi non essenziali, è cucito su dialoghi che appaiono in tutta la loro densità, capaci di restituire più letture. Così il dramma si colora di sfumature persino ironiche, di cadenze musicali, di attimi che sdrammatizzano, ma solo con variazioni di tono calibrate ad arte. Variazioni che caratterizzano il personaggio di Edgardo, figlio del duca di Gloucester, ingiustamente calunniato dal fratello illegittimo Edmondo (un David Turri che brilla anche in versione di duellante con la spada) e costretto alla fuga e al travestimento. Giusy Barone, nelle vesti del povero Tom (ovvero Edgardo cammuffato), parla secondo una partitura musicale, canta Stand by me e suona l’ukulele. E’ qui che la tristezza si tinge di ironia e strappa il sorriso laddove la tragedia parrebbe prevalere, in un vortice di parole che significano oltre loro stesse. Il dramma si sublima nell’amore filiale sincero e privo di ostentazioni di Cordelia/Simona Gandini (unica figlia a torto diseredata da Lear). Profondamente umana e tragica, non indulge al patetico e assume una statura tragica nobile e vera. E’ con una straziante quanto composta veglia laica all’abito che rappresenta il corpo di Cordelia che termina L.E.A.R. – Leave Eyes at rest: un’istantanea sul disastro della cecità ottusa e dell’incomprensione che genera morte. Uno spettacolo da vedere e rivedere, perché la Compagnia Stregatti lo riprenderà e svolgerà ulteriormente in autunno, per un nuovo debutto nella prossima stagione teatrale.

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