12 Gennaio 2023
09:56
Tra commercio, odio e utopia. Recensione de “Il mercante di Venezia” all’Alessandrino
ALESSANDRIA – “Harold Bloom dice che, se vuole gustare Il mercante di Venezia, il pubblico deve diventare antisemita”. E’ una frase forte quella con cui Franco Branciaroli ha introdotto l’incontro pomeridiano con la stampa sull’allestimento del testo shakespeariano, diretto e adattato da Paolo Valerio, prodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Centro Teatrale Bresciano, Teatro de Gli Incamminati. Lo spettacolo è stato presentato ieri sera 11 gennaio al Teatro Alessandrino per la Stagione Teatrale Comunale in collaborazione con Piemonte dal Vivo e la città ha risposto con una grande partecipazione di pubblico e di giovani. Il prossimo appuntamento sarà, sempre all’Alessandrino, giovedì 2 febbraio, con “Il malato immaginario” di Molière, adattato e diretto da Guglielmo Ferro con Emilio Solfrizzi, in scena con Lisa Galantini, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Pietro Casella, Cecilia D’amico e Rosario Coppolino.
“La grandezza di Shakespeare è di linguaggio, poetica e sociologica, perché, come Balzac, ha scritto una commedia umana”, ha spiegato Branciaroli, per questo Il mercante, scritto in un’Inghilterra antisemita, rimane un testo eterno, ricchissimo di spunti e interpretabile secondo diverse angolature a seconda del momento storico e della sensibilità del pubblico. “Tratta di due mondi: quello commerciale che anticipa ciò che avverrà in Europa e quello utopico dove le donne sono mediatrici dei contrasti”. In una scena imponente (di Marta Crisolini Malatesta), dove un muro di mattoni di fondo (viene da pensare al muro del pianto) si apre a diversi livelli per mostrare altri ambienti, i due mondi sono divisi e si incontrano. Al piano superiore si apre la città fantastica di Belmonte, dove regna Porzia (una Valentina Violo determinata che si muove tra saggezza e irruenza) con la sua ancella (Dalila Reas). A Venezia, mondo di interessi economici e di scontri, vivono il mercante Antonio (Piergiorgio Fasolo, ostinatamente arrogante e solo nella sua tristezza), che si indebita, a costo di mettere in pegno una libbra della sua carne, con l’ebreo Shylock (Branciaroli). Lo scopo è permettere all’amato amico Bassanio (Stefano Scandaletti) di raggiungere e sposare Porzia. Intorno alla contrapposizione tra i due luoghi, metafora di stati della mente e dell’animo (ben resi dal livello alto del primo e basso del secondo), e a quella tra cristianesimo e ebraismo, girano altri amori, intrighi e parentesi comiche. Trapela l’amore omosessuale di Antonio per Bassanio, sottolineato da un bacio passionale e fonte della sua malinconia, argomento ben presente tra le righe di una commedia nera dove tutti i personaggi sono cattivi e Shylock, con la sua pretesa sanguinaria che sa di vendetta, appare il più umano. Se le parole di Shakespeare hanno attraversato i secoli, è il taglio registico che le mette in scena con un punto di vista personale e contemporaneo. La regia di Paolo Valerio si concentra sulla cattiveria, sull’odio gratuito e, nel caso dello Shylock di Branciaroli, sull’ironia e sulla rassegnazione (“noi sopportiamo da secoli”). L’impostazione è corale, con i personaggi ai lati del palco che sottolineano le azioni battendo le mani o percuotendo delle panche, e corali sono le coreografie di inizio e fine, mentre tutto si gioca con un’agilità e una gestualità godibili del bravo e per lo più giovane cast (di cui fanno parte anche Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli). Su tutto giganteggia Shylock, la cui cattiveria pare giustificata dai continui soprusi di cui è vittima. Franco Branciaroli evidenzia il tratto ironico delle sue parole (“il guadagno è sempre benedetto”, “una clausola – quella della libbra di carne – per sport”) e, nel finale, ne esalta la tragedia sullo sfondo dello scherno generale. Porzia, travestita da dottore in legge, priverà, con un cavillo legale, Shylock della sua vendetta e l’ebreo sarà costretto a convertirsi al cristianesimo. “La tragicità del finale non viene percepita nella sua interezza da un pubblico laico”, ha spiegato Branciaroli durante la presentazione, e per questo la scelta registica ha inserito un epilogo dove l’ebreo, costretto a fare la comunione, muore. Un tributo ad un personaggio che non merita di uscire di scena dopo la sconfitta e una chiusa che ricorda, fino alla fine, la radice amara della commedia. Uno spettacolo imponente, di circa due ore e mezza, costruito come una macchina scenica dove tutti gli ingranaggi sono continuamente in moto e si completano tra loro. Qualche brano in stile comico appare staccato dal gusto contemporaneo e, forse, si sarebbe potuto sfrondare o interpretare diversamente, mentre l’aspetto tragico, seppure in apparenza stemperato, arriva forte e chiaro. Prevale un fastidio nei confronti della cattiveria gratuita e del pregiudizio, e l’intento (non del Bardo, non si pretende tanto, ma del taglio registico) di denunciare l’ottusità dell’antisemitismo con parole antisemite è raggiunto.