14 Gennaio 2018
08:00
I limiti della democrazia. Recensione di “Coriolano” a Valenza
VALENZA – “Il potere costituito su basi emotive è l’opposto della democrazia” dice Gianrico Carofiglio ne “La manomissione delle parole”, parlando della retorica populista che persuade e sottomette. E’ quello che succede in “Coriolano”, l’ultima e la più politica delle tragedie di Shakespeare, messa in scena sabato 13 gennaio al Teatro Sociale dalla Compagnia MaMiMò, nell’ambito della rassegna Open e tappa del Festival Concentrica, promosso da Il Teatro della Caduta.
Coriolano rappresenta lo scontro tra autoritarismo sprezzante, rappresentato dal valoroso Caio Marzio, vittorioso sulla città di Corioli dalla quale prende il soprannome, e limiti della democrazia. Il protagonista, dalla personalità integra ma altezzosa, viene nominato console per i suoi meriti in battaglia e, subito dopo, esiliato per la mutata volontà del popolo, aizzato da subdoli tribuni.
Il tema, nella regia lucida e chirurgica di Marco Plini, si sposta da dilemma autoritarismo-democrazia a quello dei limiti di quest’ultima, fortemente minata dalla manipolazione e dalla disinformazione. Niente battaglie, tagli che rendono il testo più snello e uso di proiezioni, che risolvono momenti chiave della tragedia, sono le scelte per rendere l’attualità di una situazione che sembra di vivere ora, in campagna elettorale. Le parole di Shakespeare invece sono immutate; rese con fedeltà, emergono forti e vere.
Il popolo è la platea, coinvolta sin dall’inizio con i protagonisti che si mescolano al pubblico, lo interrogano, lo fanno sentire parte in causa, in grado di decidere, ma, in verità, massa da plasmare. Gli spettatori appaiono sullo schermo in scena, mentre diabolicamente i tribuni/Cecilia Di Donato e Luca Mammoli tramano su come influenzare le opinioni della plebe. Sempre il pubblico, come privo di memoria storica (passano i secoli ma l’uomo non cambia), un attimo prima acclama e un attimo dopo condanna. Gli abiti ricalcano la tenuta delle Iene televisive, un marchio solo formale di credibilità. Sono in rassicuranti giacca e cravatta neri sia i tribuni, che si spogliano delle iniziali tute bianche e passamontagna da rivoltosi, sia Cominio (Marco Merzi), che Menenio (Luca Cattani), entrambi scaltri politicanti. Con lo stesso abito, ma con i tacchi a spillo, la madre di Coriolano, una Valeria Perdonò malefica, astuta e sensuale. La sua brama di potere è pari a quella di Lady Macbeth ed è lei a dominare il figlio, forte di un’aura femminina ipnotica e oscura. Semplicemente splendida. Tra tutti, Coriolano, un guerriero metropolitano con le bardature da motociclista, forte e indomito, ma in realtà nudo di fronte alle insidie della politica. La sua vulnerabilità sta nella correttezza e nell’integrità anche nell’errore, ed è fatta vibrare da un bravo Marco Maccieri, che fa esplodere tutta la rabbia di chi è battuto con l’inganno e non ha armi dialettiche né ipocrisia per difendersi.
Il pregio registico nei classici sta nel porgere un testo con fedeltà e farlo sentire pulsante e attuale. Plini fa di più, il suo Coriolano pare uscire dalle polemiche elettorali, dalle demonizzazioni mirate, dai giochi politici dei quali è dato conoscere solo la facciata, infine dai richiami alla democrazia del popolo del web. E’ una bellezza vedere Shakespeare così e sarebbe una grossa perdita non farlo.