21 Gennaio 2018
11:16
Ridere dalla parte del torto. Recensione di “Acqua di Colonia”
ASTI – “E’ tutta colpa del colonialismo”
E’ un inizio apparentemente bonario quello di “Acqua di Colonia”, spettacolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, messo in scena, nell’ambito della rassegna Public, sabato 20 gennaio allo Spazio Kor, tutto esaurito di un pubblico attento che si è fermato, al termine, a parlare ulteriormente con i protagonisti.
Il fastidio nei confronti dei venditori abusivi (una volta si chiamavano vu’ cumprà) di Frosini, nelle prime battute, è spiegato con il retaggio coloniale da Timpano, in tono intellettual-paternalistico, e tutto sembra procedere alla luce di una ragionamento ormai lucido e assimilato. È un’illusione di semplicità: l’incipit innesca un vortice di dati storici, cliché, modi di dire e di pensare, di fare comicità e divulgazione tanto insiti nella nostra cultura da continuare a forgiare il pensiero, pur avendo perso i riferimenti originari. Testimone silente, sul palco, Carine Joe (ogni sera un ospite diverso con le sue reazioni e il suo giudizio finale), a dimostrare la realtà che si impone, con la sua sola presenza, agli equilibrismi intellettualistici.
L’idea è sommergere lo spettatore, che si scopre del tutto ignaro di un periodo storico e delle sue conseguenze, in un mare di dati apparentemente disorganizzati e nominati al fine di creare uno spettacolo sul tema colonialismo. E’ un espediente che funziona, non ha nulla di polveroso, grazie al ritmo dialogico che si alterna a monologhi che fulminano e ad un’idea preconcetta che man mano rivela la sua ipocrisia: quella degli “Italiani brava gente”. Le ipotesi di spettacolo emergono su una quantità di materiale che prende forma e nome. Sono i nomi e le date delle città conquistate, che in un monologo di Timpano creano una musica che sa di noncuranza storica dell’orrore. Sono anche le annotazioni della Guida all’Africa orientale italiana del ’38, che fanno sorridere amaramente con l’ottusa ipocrisia che definisce gli indigeni “indolenti e dissimulatori come tutti gli africani”; come dire che i buoni selvaggi sempre selvaggi e tutti uguali sono.
E’ nella seconda parte dello spettacolo che tutto prende forma. L’explicit di “La mia Africa” commuove nell’interpretazione di Frosini, ma anche indigna per la sua presupponenza (perché mai l’Africa dovrebbe ricordarsi di Karen Blixen e della sua mania di mettere i guanti bianchi al servitore indigeno?), così le canzoni infarcite di retorica razzista ritornano alla mente facendo sorridere e vergognare al contempo. E’ solo alla fine che un pupazzo/bambino prende voce (quella azzeccatissima di Sandro Lombardi), consapevole di non essere considerato (“Parlano sempre loro”). Non è il negretto degli sketch televisivi (Tognazzi/Agus) o delle pubblicità e il contrasto stride, si allontana da retorica o morale, solo esiste.
Due ore tra passato e presente, affermazioni e il loro contrario, dati storici ed elementi di cultura popolare, canzoni, slogan e un ritmo scandito da cortocircuiti fulminanti. “Acqua di Colonia” fotografa, interpreta e smentisce immediatamente, fa ridere ed è agghiacciante, perché non lascia nessuno indenne (“siete per sempre coinvolti”, cantava De André). Si possono attribuire molti pregi al testo e all’interpretazione di Frosini-Timpano, tra cui la ricchezza del materiale raccolto, il dinamismo in scena di una coppia dall’intesa perfetta, l’apparente noncuranza che repentinamente stupisce e cambia i riferimenti, ma, ciò che preme sottolineare, è la partecipazione che lo spettacolo suscita. Ci si sente sulla scena, come Carine Joe, come il piccolo scimpanzé che parla nel finale, solo ci si sente dalla parte del torto, pur ridendo.
Assolutamente da vedere.
Lo spettacolo è prodotto da Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti, con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio. Si avvale della consulenza di Igiaba Scego e dell’aiuto alla regia e alla drammaturgia di Francesca Blancato.