11 Febbraio 2018
11:11
Da Cechov in poi. Recensione di “Io non sono un gabbiano” alla Mezza Stagione
COSTIGLIOLE D’ASTI – E’ la negazione nel titolo che introduce l’idea di “Io non sono un gabbiano”, rilettura del testo di Cechov da parte della compagnia Òyes, in scena sabato 10 febbraio alla Mezza Stagione del Teatro Municipale di Costigliole, con la direzione della Compagnia Gli Acerbi.
Il testo, per la regia di Stefano Cordella, mantiene i personaggi de “Il gabbiano” nei loro caratteri e nei loro ruoli, esasperandone le infelicità e le espressioni, per ripiegare tuttavia l’esternazione su se stessa e farla implodere, come nelle atmosfere cechoviane. La differenza sta nella clamorosità di ciò che i protagonisti della Compagnia Òyes fanno, mentre quelli di Cechov trattengono in gesti misurati il dramma. Il risultato, con modalità differenti e stesse frustrazioni, è identico: qui il clamoroso è stemperato dall’incredulità e dalla sufficiente disapprovazione del gruppo, che diventa un irridente coro, là era lo scontato quotidiano che trasudava insoddisfazione e dolore. Comunque e ovunque incomunicabilità e dramma trattenuto che implodono.
Tutto inizia ai funerali di Arkadina, presenza implicita che diventa pretesto per esternare il bisogno di realizzazione artistica e sentimentale dei protagonisti, ognuno a suo modo irrisolto. Treplev, il figlio alla disperata ricerca di realizzazione artistica, alza l’aspettativa tragica e sconcerta sin dall’inizio. Nudo di fronte a Nina, che recita un monologo teatrale come omaggio funebre, spettacolarizza il suo dolore di figlio ignorato, di artista incompreso e di innamorato non ricambiato. Anche Medvèdenko, maestro mediocre e qui molto simile ad un imbonitore televisivo, nella sua orazione funebre lunga e dall’effetto comico, cerca visibilità. Così Sorin, al quale viene ricordato di sparire, perché morto da un anno, reclama il diritto, pur morto, di vivere in un contesto dove i vivi non lo sono più di lui, avendo represso da tempo ogni energia vitale. Così il servitore-tecnico audio Dorn litiga con un microfono, in un tentativo di comunicazione altrimenti negata.
I contrasti che minano il dramma sono continui, vanno dai disturbi acustici che ridicolizzano il discorso di Trigòrin (lo scrittore amante di Arkadina) sull’amore, alla colonna sonora paradossale di “Felicità” di Al Bano e Romina che fa da sfondo alle tristi nozze finali di Medvèdenko e Maša (innamorata e non ricambiata da Treplev). Vi rientra la continua dissacrazione derisoria degli eccessi di Treplev, cui si deve una notevole convinzione interpretativa, che vince su quello che potrebbe apparire altrimenti eccesso gratuito.
Veramente tante idee contenutistiche e di regia, spesso ben orchestrate, qualche volta forse ridondanti, per un lavoro che ha il merito di riflettere molto bene le pieghe dell’opera cechoviana e di mantenerne il significato con un linguaggio nuovo che sorprende e non tradisce le aspettative. Il limite sta in punte di cerebralità che destabilizzano un po’ di più del necessario lo spettatore. “Io non sono un gabbiano” ha nel complesso una coerenza e un’originalità che ne fanno uno spiraglio illuminante della condizione umana, partendo da Cechov sino alla spettacolarizzazione esagerata dei giorni nostri. Non bravi, ma di più i tanti attori della Compagnia Oyes, cui è affidata, su una scena spoglia che li mette a nudo, la rivelazione di anime inconcluse, nella destrutturazione e ricomposizione di un testo annoverato tra i capolavori intoccabili.
In scena Daniele Crasti, Dario Merlini, Francesco Meola, Camilla Pistorello, Dario Sansalone, Camilla Violante Scheller, Umberto Terruso, Fabio Zulli.
Una compagnia decisamente da seguire, questi Òyes.