25 Marzo 2018
11:49
La forma eterna del mito. Recensione di “La cerimonia” al Teatro Alfieri
ASTI – Il mito è un paradigma assoluto, in un non-tempo e in un non-luogo. “La cerimonia” di Oscar De Summa, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, presentato al Teatro Alfieri sabato 24 marzo, sterilizza una vicenda di incomprensione familiare e crisi esistenziale in un contesto che ha la purezza eterna dell’archetipo, in uno scenario quasi metafisico di pareti di carta.
Edi (Edipo/ la figlia/Marina Occhionero), vive un’adolescenza di impasse mentale che la priva di volontà e di stimoli vitali, passa dall’anoressia alla bulimia e annuncia di non voler più studiare. I suoi genitori Giò (Giocasta/ Vanessa Korn) e Laio (Marco Manfredi) rappresentano l’inadeguatezza di fronte ai loro ruoli. La madre si dibatte tra frasi fatte e crisi matrimoniale, il padre, attratto da un uomo, sta vivendo la sua rivoluzione copernicana sessuale e rivela la fragilità della sua noncurante non autorevolezza. Il mentore irresistibile e tuttavia inascoltato è lo zio Tiresia (lo stesso De Summa), irriverente, provocatore e sobillatore di risposte e reazioni nella nipote, sempre più solipsista e passiva. E’ un veggente folle ed enigmatico, la cui anima si apre nel racconto di un incidente (in sottofondo i Metallica), passaggio dalla morte alla vita e punto di riferimento della sua pazza lucidità.
Il tempo è quello apocalittico di fine millennio, con l’incubo del millennium bug e la sensazione inquietante di fine di un’epoca. Mentre la famiglia si disintegra e rivela la sua pochezza, Edi elabora, rivolgendosi alla quarta parete, una beffa, nell’ambito di una cerimonia appunto di fine millennio. Sarà una cena sontuosa (come in ogni tragedia greca) a rappresentare il suo passaggio dall’impasse alla rivolta e il cibo, il suo nemico di sempre, diventerà strumento e alleato in un rito necessario alla crescita.
La scelta registica è scultorea e asciutta, passa dal monologo al dialogo con una successione a volte un po’ prevedibile, ma sempre dalla tempistica efficace. La colonna sonora è un rock da anni ’90 che conquista per la strana dicotomia che si crea tra eternità immobile e contemporaneità che fa saltare sulla sedia. Impeccabili i protagonisti a partire dalla giovane Marina Occhionero, sorprendente per intensità e bravissima soprattutto nei non facili monologhi. Tutte le figure sono scolpite e il loro dramma è contenuto nella forma poetica che si addice al mito, senza enfasi, ma con un senso della fatalità che va oltre le loro capacità. L’impotenza tocca il vertice nel monologo in cui Giò/ Vanessa Korn si rivela inerme di fronte alla decisione della figlia di lasciare la scuola, oppure nella disarmata domanda di Laio/Marco Manfredi : “che cosa fa un padre?”
Su tutto il linguaggio poetico-simbolico del mito, quello della sacralità e dell’eternità, quello che può essere contaminato dal rock e dalle ansie contemporanee, ma che ritorna e si fissa in forma di scritta in controluce sulla parete di carta del fondale. Tra le tante, una frase: “conosco la guerra sigillata nel mio nome”, la continua lotta, insita nell’essere e nel ruolo, tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere.
Molti applausi al Teatro Alfieri di Asti per un testo che colpisce e, come il mito, riguarda tutti.