14 Novembre 2014
07:22
La recensione della ragione e l’inspiegabile ne “Il Visitatore”
“Fino a stasera pensavi che la vita fosse assurda, ora sai che è misteriosa”. Il principio del dubbio è il perno su cui ruotano i dialoghi de “Il visitatore”, pièce pluripremiata di Eric-Emmanuel Schmitt, rappresentata, con grande successo di pubblico, giovedì 13 novembre al Teatro Alessandrino.
Nella Vienna dell’aprile 1938, durante l’occupazione nazista, Il professor Freud, anziano e malato, riceve la visita di Dio, da lui sempre negato, e si trova a dover sostenere le sue posizioni atee in un momento storico e personale drammatico. La figlia Anna è trattenuta dalla gestapo, gli uomini si innalzano e si sostituiscono a Dio in un delirio di onnipotenza crudele, gli inni nazisti risuonano nelle strade e sono la colonna sonora che ricorda il pulsare del male. In tale situazione di debolezza tutte le convinzioni di una vita passata a celebrare la ragione e a ritenere Dio “un’invenzione geniale degli uomini, un’allucinazione contraddittoria” vacillano. Alessandro Haber è Freud, traballante nell’incedere e sofferente in tutte le sue espressioni, affaticato ma eroico nel tener testa ad uno sconosciuto che si palesa come l’Onnipotente ed Eterno, senza darne prova certa perché “la fede deve nutrirsi di fede…io sono un mistero”. Alessio Boni è un Dio a tratti mefistofelico, dal fare flemmatico e canzonatorio, derisorio, ma anche pungente e mai risolutivo. Ogni sua parola mira ad aprire dilemmi ed a scardinare certezze. Il suo abbigliamento non è elegante, come nel testo di Schmitt, ma povero e trasandato. Gli scarponi scalcagnati e i guanti scompagnati e privi di dita ne fanno un disadattato, forse un pazzo scappato dal manicomio, come a tratti non nega di essere, giocando sino in fondo sulla sua identità. Le sue movenze sono dinoccolate, da non-uomo disabituato al corpo, e talvolta feline nell’accompagnare attacchi dialettici.
Il taglio registico di Valerio Binasco esalta i dialoghi, ponendoli in una cornice scenografica che pare una schermatura troppo fragile al male che la circonda. La casa di Freud si affaccia sulla strada e sulle voci dell’occupazione. I libri, le poltrone, le stanze in prospettiva sono il segno di una calma apparente in balia dell’orrore incarnato nell’ufficiale della gestapo (Alessandro Tedeschi), che rappresenta l’ottusità crudele e tutti i clichés del potere senza limite. Anna (Nicoletta Robello Bracciforti), la figlia di Freud, è la faccia combattiva della ragione, l’indignazione che si fa parola sfidando la paura.
Splendida l’empatia della coppia Haber-Boni, tale da immergere in una realtà che si impone per la densità della sua sostanza. i dialoghi sottendono concezioni filosofiche e tuttavia scorrono leggeri, grazie alla bravura dei protagonisti e al ritmo che non rallenta un istante. Perfetta la resa della contrapposizione della ragione oberata da ansie e malanni al mistero affascinante come un dio suadente e ingannevole.
Un ottimo inizio per la stagione del Teatro Alessandrino che proseguirà, giovedì 27 novembre, con “Il mio nome è Milly”, di e con Gennaro Cannavacciuolo, spettacolo che narra la vita di Milly, famosissima artista nata ad Alessandria.
Nicoletta Cavanna