6 Giugno 2016
04:32
Con Arrigazzi termina “La casa in collina”. Recensione di “Groppi d’amore nella scuraglia”
CASTAGNOLE MONFERRATO – “La casa in collina”, una tre giorni di full immersion in arte, teatro e natura alla Casa degli Alfieri a Castagnole Monferrato, si è conclusa domenica 5 maggio, portando con sé una sensazione di bellezza estetica e interiore.
Prima di tutto è necessario spiegare che la Casa degli Alfieri è veramente una casa, o meglio, una casa-teatro abitata e resa viva dagli artisti che l’hanno fondata, vi soggiornano e lavorano. Antonio Catalano, Luciano Nattino, Lorenza Zambon e Maurizio Agostinetto, nel 1994, hanno realizzato l’impresa non facile di creare a loro somiglianza un luogo–fucina di arte teatrale e visiva, su una collina del Monferrato, nell’ex rudere recuperato di una cascina signorile del ‘700, dove la natura si sposa con l’evocazione, l’accoglienza e la creatività. I tre giorni de “La casa in collina” sono una delle espressioni della multiforme attività della Casa degli Alfieri e di tutte le personalità artistiche che vi gravitano intorno. Il programma ha previsto installazioni artistiche, seminari, incursioni musicali e tanto teatro, di quello che genera empatia.
L’ultimo spettacolo, in ordine di tempo, domenica 5, è stato “Groppi d’amore nella scuraglia”, tratto dal romanzo di Tiziano Scarpa, con Emanuele Arrigazzi , attore tortonese che ha collaborato e (lui stesso dichiara) tanto ha imparato da La casa degli Alfieri e da Antonio Catalano. Nel pirotecnico monologo, il protagonista, sulla scena occupata da una sola, rustica sedia, interpreta tutti i ruoli, diverte alle lacrime e incarna temi comuni e molto umani. Dominano sovrane le passioni, perché Scatorchio, l’antieroe per antonomasia, è un uomo che ama, sbaglia in preda ad una viscerale gelosia e, infine, trova uno spiraglio nella scuraglia (che è il buio in cui si consuma l’atto d’amore, ma anche quello della rovina di una comunità). L’amore è di carne e sangue, in un contesto di bruttura e avidità, denso come la lingua magmatica con cui si svolge la narrazione. Arrigazzi parla, si dispera, colloquia con un impassibile Gesù in croce in un grammelot esilarante, che fonde dialetti meridionali, diventando materia viva da cui si generano immagini a raffica.
Le passioni non sono isolate dalla società. Corruzione, mancanza di rispetto per l’ambiente, ecologia , politica opportunistica sono fattori che entrano nell’esistenza singola, veicolandone le pulsioni. Scatorchio è inconsapevole strumento di un meccanismo criminale che, per guadagno, distrugge il paese e lo tramuta in discarica su cui svetta, ridicolo oggetto di scambio, un ripetitore, inutile collegamento televisivo tra un lontano virtuale e un nulla desertificato.
Una storia che, in modo sorprendentemente ilare e, al contempo, emozionante, suggerisce realtà riconoscibili. Non molti attori si cimentano oggi con il grammelot, una prova difficile il cui rischio sta nella poca presa sul pubblico. Arrigazzi inchioda con la capacità di infondere significato a termini spuri o fantasiosi. Senza ombra di dubbio proprio la sua voce deve forgiare il linguaggio di Scatorchio, un parlato creolo dalle tinte forti e popolari, dove la raffinatezza delle mezze misure non esiste e dove Sirocchia (la donna bramata, fonte di folle gelosia) è il pensiero delle sue forme, non certo una fanciulla eterea.
Ciò che passa allo spettatore (prima nella pancia che nella mente, come si dice) sono le pulsioni ataviche, volgari e prive di raziocinio, tanto più vere quanto più intrise di una lingua carnale. Nulla si perde nella scuraglia di una lingua che diventa tanto più espressiva quanto più grugnita nel significare “doglio d’ammure”, pentimento o bagliore di rinascita, che si intravede nel deserto del paese morto.
Da vedere, assaporare e rivedere ancora.
Nicoletta Cavanna