Autore Redazione
giovedì
15 Dicembre 2016
08:00
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Eventi - Alessandria

“Il sogno di un’Italia” secondo Scanzi e Casale. Intervista ad Andrea Scanzi

“Il sogno di un’Italia” secondo Scanzi e Casale. Intervista ad Andrea Scanzi

ALESSANDRIA –  La speranza è una trappola inventata dai padroni… la speranza è una cosa infame, inventata da chi comanda…”

Con queste parole del regista Mario Monicelli inizia “Il sogno di un’Italia. 1984 2004, vent’anni senza andare mai a tempo”, di e con Andrea Scanzi e Giulio Casale, in scena sabato 16 dicembre alla sala Ferrero del Teatro Comunale di Alessandria, quarto appuntamento della Stagione SIPARIO e MARTE, con la direzione artistica degli Stregatti.

Tratto dal libro di Scanzi “Non è tempo per noi”, lo spettacolo parla di un ventennio, degli eventi che l’hanno scosso e delle sue occasioni mancate, attraverso momenti cruciali, fatti di costume e la musica che l’ha caratterizzato.

 

Scanzi, che cosa significa “il sogno di un’Italia”  e perché “vent’anni senza andare mai a tempo”?

È la nostra vita intesa come vita collettiva, paese,  generazione. Probabilmente in quegli anni abbiamo sbagliato, ce la siamo presa comoda, non abbiamo sfruttato i match point. Nei vent’anni dall’84 al 2004 quello che ha colpito di più me e Giulio è stata la fine del concetto di appartenenza, cioè quella bellissima sensazione che si prova quando non ci si sente soli e ci si sente rappresentati. In quel ventennio, più o meno dalla morte di Berlinguer in poi, si è assistito al decadimento di ciò e ci si è aggrappati ad altro, come al cinema, alla musica, allo sport.  Se penso al concetto del non andare mai a tempo, penso al momento storico in cui veramente lo si poteva fare,  cioè  il 1992. Allora ci fu veramente un grande match point, la possibilità di cambiare.   Ogni giorno succedeva qualcosa (tangentopoli, fatti tragici come la strage di Capaci) e poi, dal  senso di rinascita della seconda repubblica, ci siamo ritrovati Berlusconi.

Nello spettacolo si parla di uno specifico match point?

Quando morirono Falcone e Borsalino, Antonino Caponnetto fece un tour nelle scuole superiori e venne anche nella mia scuola ad Arezzo. Era già un uomo vecchio, ma non era una questione anagrafica, era stanco. Ci raccontò la sua vita, quella di Falcone e Borsellino e ci disse con grande trasporto emotivo: “ora tocca a voi, diventerete grandi, prenderete questo paese sulle spalle e dovrete fare tesoro del loro sacrificio, se no sarà stato vano”. Posso garantire, anche per chi c’era, che ci sentivamo veramente al centro della storia e ci sembrava possibile, una volta adulti, cambiarla e non ripetere i precedenti errori. A me colpisce molto quel senso di speranza e di utopia. Poi, quando quella generazione è andata a votare per la prima volta, ci siamo trovati Berlusconi per vent’anni. Quello mi sembra il momento decisivo del match point, ma mi sembra anche esemplificativo dell’andare avanti senza mai acchiappare fino in fondo la vita e il nostro senso di cambiamento.

Prevale la mancanza di speranza?

La parola speranza non mi piace. Lo spettacolo ha due valenze. Il primo effetto è ricordare, senza celebrare,  quegli anni e prendere esempio da quelle persone che ci hanno dato tanto, siano esse Troisi, Pantani o Monicelli o Caponnetto. A proposito della speranza cito all’inizio Le parole di Monicelli e, in conclusione,  quelle di Ferruccio Parri che  negli anni ‘70, quando diventò senatore a vita,  diceva ai nuovi deputati: “smettete di fare politica, tanto non serve a niente, questo paese è irrecuperabile”. Alla fine dello spettacolo chiedo se vogliamo dare torto a Monicelli e a Parri, se vogliamo dimostrare che gli italiani non sono così lassisti, così pavidi e così abituati ad accettare tutto. Questo è il secondo senso dello spettacolo, cioè ricordare tutte le stronzate (e si scusa del termine, ma non ce n’è bisogno, penso) che abbiamo fatto, ma avere quel moto di indignazione e di protesta che ci faccia pensare di potercela fare. Me l’ha insegnato Gaber, al quale non interessava l’applauso, ma suscitare una reazione, anche negativa.

Alla luce della partecipazione all’ultimo referendum queste parole sembrano particolarmente pregne di significato

Sì, se vogliamo dare anche una connotazione di attualità, la scelta del referendum mi è sembrata un moto di protesta, di indignazione e  di presa di coscienza che non mi aspettavo e che mi è piaciuto tanto, per il quale trovo valga la pena essere italiani

La musica ha un’importanza determinante nello spettacolo

Con Giulio Casali abbiamo la stessa idea  di teatro che è di teatro-canzone, ovvero alternanza di monologhi e canzoni, come faceva Gaber.  Abbiamo fatto insieme la scelta dei brani, ma Giulio con la sua interpretazione li ha fatti suoi. Sono nella maggior parte di quel periodo storico, come “Povera patria” di Battiato o l’”Halleluja” di Cohen nella versione di Jeff Burkley, che Giulio fa in una versione profondamente vicina all’originale. C’è “Liberi liberi” di Vasco Rossi e ci sono anche canzoni che non sono di quel ventennio, ma che ci sembravano adatte alla narrazione come “In fila per tre” di Bennato e “Il cancro” di Gaber. L’inizio e la fine sono con Ivano Fossati, rispettivamente con “Una notte in Italia” e C’è tempo”. Ci sono poi altre canzoni accennate come scherzo, perché è uno spettacolo in cui si ride anche, non certo da immaginare come plumbeo o triste. Ci sono momenti di ironia, perché in quegli anni ci sono stati anche eventi leggeri e piacevoli da ricordare.

Il biglietto a posto unico costa 15 euro. Per info e prenotazioni 3314019616  http://teatrostregatti.it/

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