28 Gennaio 2017
10:52
Le tante anime che formano una società. Recensione di Utoya allo Spazio Kor
ASTI – Sono i punti di vista diversi, eppure con un comun denominatore, a dare corpo all’opinione comune, che pure si dirama in tanti rivoli.
Le voci differenti su un fatto tragico di cronaca nera sono la trama di “Utoya”, andato in scena venerdì 27 gennaio allo Spazio Kor , nell’ambito del cartellone _delPresente, riadattamento teatrale di Edoardo Erba del libro di Luca Mariani “Il silenzio sugli innocenti”, per la regia di Serena Sinigaglia e l’interpretazione di Arianna Scommegna e Mattia Fabris.
Nell’isola di Utoya, nella pacifica Norvegia, dove anche la polizia non utilizza armi, sede dei campeggi estivi dei giovani laburisti, il 22 luglio 2011 Anders Behring Breivik, risultato sano di mente, uccise 69 ragazzi con la ferma intenzione di colpire quella fazione politica, dopo aver posizionato una bomba ad Oslo come diversivo.
Tre coppie, interpretate dagli stessi due protagonisti, vivono la tragedia non direttamente, ma da vicino. Non sono tre punti di vista, ma sei, poiché non c’è armonia tra loro e rappresentano voci discordanti nella stessa situazione. Nell’uomo politico laburista, che ha costretto la figlia ad andare al campeggio del partito, prevale la fede ideologica, in contrasto con il disimpegno verso la famiglia. Lo scontro con l’individualismo e il forte amore materno della moglie è inevitabile nel momento della paura per la sorte della ragazza. Altro scontro si ripropone, nella stazione di polizia di fronte e vicinissima all’isola, tra l’obbligo morale di un’agente di intervenire anche senza un ordine formale, contro il rifiuto cinico e vile a farlo del suo superiore. Infine il disinteresse del riserbo combatte e vince contro il desiderio di indagare, fare chiarezza e vincere la paura per senso civico in una coppia di contadini fratelli, vicini di casa del killer. Unici pensieri comuni che attraversano le menti sono la sorpresa per la pace turbata di un paese che si crede al di sopra di ogni pericolo e l’errata convinzione iniziale della matrice islamica dell’attentato.
Arianna Scommegna e Mattia Fabris passano da un personaggio all’altro con soluzione di continuità, talvolta riprendendo una parola e inserendola in altro contesto, in uno scivolare che genera un senso di angoscia crescente. Ai loro dialoghi sempre più concitati il compito di seguire lo svolgimento dei fatti, alternandosi nei diversi ruoli e suggerendo diversi spazi, mentre le dinamiche della vicenda prendono corpo e il tempo scorre drammaticamente. Si muovono su una scenografia simbolica, che pare un’opera d’arte (di Maria Spazzi), di tronchi spezzati come le vite e di frammenti di specchio, cocci di una società che ha generato individualismo, barriere e paura.
Utoya è uno spettacolo che non finisce con lo spegnersi delle luci e non pacifica. Sono talmente tanti gli spunti legati alle reazioni, alle grettezze mentali e agli schemi utilizzati dalla mentalità comune per giudicare i fatti, che è impossibile non tornare col pensiero a particolari e parole. Nulla è casuale e tutto si imprime nello spettatore, dalle posture dei bravissimi protagonisti, alle frasi ricorrenti (“Qui da noi”, “un nordico”, a proposito dell’assassino), al crescendo ansiogeno del ticchettio dell’orologio contemporaneo agli spari.
La sensazione è di densità di concetti, di interpretazione intensa e sofferta e di rara eleganza, perché ci sono una misura e un rispetto anche nella descrizione del dolore.
Molti applausi allo Spazio Kor da parte di un pubblico che ha risposto con un’attenzione e un silenzio degni di un rito.