19 Giugno 2024
11:06
Sul filo della fine. Recensione di “La morte ovvero il pranzo della domenica” ad AstiTeatro
ASTI – La ritualità e il sentire comune, i gesti di sempre e le emozioni che vi scorrono attraverso. “La morte ovvero il pranzo della domenica”, scritto e diretto da Mariano Dammacco e prodotto dalla compagnia Diaghilev, parla di morte come prospettiva inevitabile, di legami e di presentimento della perdita. Il monologo, interpretato da Serena Balivo (già premio Ubu come miglior attrice under 35), è stato presentato ieri 18 giugno ad AstiTeatro, il festival teatrale astigiano che proseguirà sino al 29 giugno. Il programma è consultabile su astiteatro.it.
Tutto si svolge nel tempo di un pranzo, scandito da un menù prevedibile e dalle consuete paste finali, su una scena dove una tenda sul fondo riduce la profondità e spinge la protagonista verso lo spettatore. Serena Balivo è una figlia già anziana che ogni domenica rinnova la consuetudine del pranzo con i genitori ultranovantenni, nella consapevolezza comune del declinare della loro vita. Con una parrucca grigia e abiti eleganti, incarna una gestualità contorta e arrugginita, mentre inizia il racconto di un evento che si tinge di lati comici, di affetto intenso, seppur trattenuto, e di attesa dell’ignoto.
Il registro è comico, il tono persino rocambolesco e si ride alla descrizione della pignoleria paterna, come della “cofana di patatine fritte” immancabilmente abbinate ad ogni secondo piatto. Balivo abbraccia una comicità pericolosa, evitando, con una prova d’attore notevole, il rischio della caricatura e sviscera la routine di una coppia anziana senza leziosità, con un’ironia credibile e un punto di vista esterno ed affettuosamente derisorio. Non ci sono nomi, neppure la città di origine dei protagonisti viene citata; le singole personalità sono delineate alla luce del legame reciproco, del loro porsi di fronte alla morte e in rapporto al passato.
Le portate del pranzo si accompagnano alle storie che appartengono alla loro infanzia, ripetute senza fine, come una zattera mnemonica cui aggrapparsi per sorridere, ritrovarsi e condividere. Sono ricordi che sembrano parte di una sfera di memoria collettiva, frammenti personali eppure ben riconoscibili, mitologie comuni legate alla fine della vita e ad un possibile aldilà. Tutto si regge su un’interpretazione che passa in continuazione da un registro narrativo distaccato e ironico ad un coinvolgimento emotivo che prospetta ciò che si sa imminente, ma ancora rimane ignoto. La morte è un filo su cui si chiacchiera (“i morti della settimana a mio padre destano bei ricordi”) e si scherza, inventando situazioni paradossali sull’ipotizzato prossimo funerale. E’ una vertigine che lascia attoniti e insonni al suo pensiero e sembra abitare in un bambolotto-manichino che la protagonista bersaglia fino a farlo cadere, nel tentativo impossibile di cristallizzare la vita.
In un’incertezza e in un declino sempre più rapido, ciò che rimane è la scansione routinaria dei momenti, delle portate del pranzo, delle “musiche ascoltate a volume esagerato, ricordando chi è andato via” (di Marcello Gori), che il padre sostituisce al discorso sulle emozioni. E infine, un ultimo saluto dei due genitori incorniciato dalla finestra, sincrono come quello di due tergicristalli, ad indicare ciò che c’è, è transitorio, ma eterno nel tempo interiore di chi ama. Un testo che appare universale, intimo ed anonimo al tempo stesso, raccogliendo un sentire e una mitologia della morte comuni e trasversali. Una prova attoriale che osa comicità e distacco per arrivare a commozione e sgomento, accompagnando lo spettatore in un viaggio nelle pieghe della mente che suppone l’inconoscibile.