Autore Redazione
domenica
10 Maggio 2015
19:37
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Cronaca - Alessandria

Sciopero della scuola del 5 maggio: ‘bisognava disobbedire’

Sciopero della scuola del 5 maggio: ‘bisognava disobbedire’

ALESSANDRIA – Perché andare a manifestare contro la riforma scolastica di Renzi? Perché andare in piazza dopo tanto tempo? Ha ancora senso manifestare? A questi interrogativi ha risposto una nostra ascoltatrice e lettrice, Ilenia. Ha voluto condividere con noi questa lettera aperta in cui ha spiegato le motivazioni della giornata del 5 maggio e quello che ha rappresentato per lei e per tante altre colleghe. Siamo molto lieti di pubblicarla:

Stamattina, alle 5.20, è suonata la sveglia. C’è voluto un po’ di tempo per realizzare che la giornata che iniziava sarebbe stata diversa. Mi sarei alzata, sì, come di consueto. E come di consueto mi sarei preparata e sarei uscita. Ma non per recarmi a scuola, non avrei visto come tutte le mattine i miei alunni, né salutato la panettiera all’angolo. Oggi, 5 maggio 2015, è giornata di sciopero e manifestazione.
Così ho vestito i miei abiti da insegnante disubbidiente e sono scesa in piazza.

Sì, scesa: dalle aule della scuola alla piazza del Paese, per metterci la faccia e dire che questa riforma non mi piace. Che sia chiaro, dirlo a me, innanzitutto. Al governo. All’Italia. E soprattutto ai miei studenti, quelli di ieri, oggi e domani. Da un po’ di tempo a questa parte mi è venuta la fissa delle etimologie. Così mentre, mi dirigevo al luogo convenuto per la partenza da Casale, così ragionavo.

Pensavo che scioperavo, innanzitutto, e scioperare è ‘fuori (ex) dal lavorare (operari)’. E che a questo si aggiungeva il manifestare (‘toccare, sorprendere, cogliere con la mano’).

Dunque ero fuori dall’operare e allo stesso tempo svolgevo il lavoro per eccellenza, quello del fare con le mani. Forse allora più che essere fuori dall’operare, operavo fuori dal consueto, dall’ordinario. Fuori dalle aule, in piazza, rompendo un silenzio che era durato troppo a lungo, rendendo palpabile, pubblico, a tutti evidente (a tal punto da potersi toccare con mano, appunto) il mio pensiero. Insomma, come che sia, si va, mi son detta. Cristiana, Michela, Francesco, Luisella i compagni di viaggio. In auto, che si va.

Ad Alessandria l’appuntamento è in piazza Garibaldi. Tre pullman e parecchie facce smarrite, come la mia, di chi sa che è giusto esserci, che oggi proprio non si poteva mancare, ma che non lo si fa da così tanto tempo che chissà.

Riconosco volti, altri li vedo per la prima volta, mi sorprendo per presenze che non avrei immaginato e leggo lo stesso, medesimo stupore nei loro occhi. Non c’è modo migliore per accorciare le distanze. “Come, anche tu qui? Ma dai… Chi l’avrebbe detto! Bene, siamo più vicini di quanto pensassimo”, sembriamo dirci. Nulla crea più fratellanza del trovarsi lì. Eppure si va cauti, in fondo siamo insegnanti, mica operai… Peccato, penso, questa rigidità, questa diffidenza, questa timidezza che ci imbriglia. Ma non faccio a tempo a dare forma al pensiero che gli operai arrivano eccome. Abbiamo appena preso posto sul pullman che corre una voce: Serena Cgil annuncia che con noi ci sono i metalmeccanici. Ed eccoli lì: alti, fieri e sorridenti gli uomini FIOM.

Indossano la maglietta rossa sindacale e io sono, per un attimo che dura tutte le volte che il mio sguardo incontra il loro, una bambina felice e spavalda, sicura ormai che nulla di male potrà accadere ora che sono arrivati i nostri Vigili del Fuoco, i Guardiani della Sicurezza, gli Uomini RossoFiom…

È la prima, bella sorpresa della giornata (ce ne saranno almeno altre due degne di nota) e questa loro presenza mi riscalda il cuore. Capisco come mai prima d’ora certe formule da manuale di storia: lotta interclassista, trasversale, intercategoriale. Si rivelano ora per quello che sono davvero: queste magliette rosse e le loro facce sorridenti e rassicuranti.

Chi gliel’ha fatto fare a svegliarsi così presto?! È così bello dormire al mattino… A Famagosta si prende la metro e si scende a Centrale. Qui ci aspetta la seconda bella sorpresa della giornata.

Un gruppo di studenti delle scuole superiori (forse qualcuno anche universitario) ci accoglie festante, manifestando approvazione per la nostra scelta. “È bello che oggi gli insegnanti abbiano deciso di non lavorare e di essere qua, a manifestare contro la buona scuola”. Gli insegnanti contro la buona scuola?! E che insegnanti sono?! Sì, gli insegnanti contro la buona scuola perché questa scuola (quella del ddl del governo) di buono non ha proprio nulla. “Ringraziamo gli insegnanti, che sono sono qui, con noi. Che hanno lasciato le loro aule per dire forte il loro no a questa legge”. Gli studenti ringraziano gli insegnanti? Solo lo sciopero può sortire simili effetti… Ironia a parte, se sentono il bisogno di ringraziarci è perché questa nostra mossa li ha sorpresi. Non se l’aspettavano. Da troppo tempo disertiamo le piazze.

E si vede anche da questo nostro imbarazzo. Ancora, come prima con la Fiom, si rivela questa nostra difficoltà ad esprimerci, ad essere spontanei. Facciamo finta di niente, nonostante il gruppo di studenti ci stia scortando a piazza Repubblica, dove è previsto il concentramento. Serpeggia un po’ di imbarazzo, non sappiamo che dire, che fare. Michela rompe gli indugi: “Facciamo un applauso ai ragazzi che sono venuti ad accoglierci?” E l’applauso parte e rapido si propaga, come una scintilla. Accende noi, gli insegnanti. E loro, gli studenti, che ci rispondono con il loro battere di mani. È un saluto festoso che rompe divisioni e ruoli. Via ora, che si deve ancora andare.

Siamo in marcia. Il corteo è composto: qualche slogan, qualche canto: siamo tanti e questo ci rende forti e visibili. Arriviamo così a Bastioni Porta Volta. Al civico 16 c’è l’Istituto Carlo Tenca. Gli studenti sono a scuola, prigionieri di uno spazio che non possono abbandonare. Nel modo in cui possono manifestano però, affacciandosi dalle finestre delle aule, concentrandosi in cortile, calando striscioni dai cancelli in ferro: paiono animali in gabbia. Un’immagine, una metafora perfetta di questa resistenza a una scuola che vorrebbe selezionarli, secondo principi sempre meno equi dal punto di vista sociale, imprigionarli, imbrigliarli, addomesticarli. Loro non ci stanno e ci salutano. Noi anche salutiamo. E si va avanti così per un po’: noi di qua, loro di là dai cancelli a salutarci, applaudirci, poi ancora salutarci. Vorremmo averli nelle nostre fila, ma non possono uscire: sono minori e la scuola deve tutelarli (e tutelarsi). Ma va bene anche così.

Ci riconosciamo attraverso le inferriate e la loro segregazione conferisce ancora più ritmo al nostro camminare. Ancora avanti dunque, fino all’Arco della Pace. Qui discorsi, applausi, striscioni e altri incontri. “Che bello che ci sia anche tu!! Non ci siamo visti… Dov’eri? Ci sono anche i colleghi delle medie. Hai visto quanta gente?”. Serena ci aggiorna “Molte scuole chiuse in provincia. È stata una grande manifestazione. Parlano dell’ottanta per cento di adesioni allo sciopero”. Abbiamo scioperato e manifestato, sì. Sottovoce, in punta di piedi. Come chi crea un disagio, lo sa, e allo tesso tempo pare scusarsi per quel disagio che, se avesse potuto, avrebbe evitato. Ecco cosa fanno anni e anni di studio e sovrastrutture. Abbiamo scioperato e manifestato, con compostezza e dignità.

Ritorno col pensiero alle etimologie mattutine. Scioperare, manifestare… Era possibile davvero un’altra scelta? Davvero avrei potuto ignorare tutto questo ed entrare in classe stamattina come se nulla stesse accadendo? Come raccontare ancora di rivoluzioni e resistenze, di diritti e doveri, di cittadinanza responsabile e consapevole, di dignità e rispetto, di pace, partecipazione e solidarietà, di legge morale e cielo stellato?

Le parole, senza coerenza, rinsecchiscono e muoiono. Se un giorno i miei studenti mi avessero detto: quel giorno però lei era a scuola. Cosa avrei potuto rispondere? Che non sapevo? Che non avevo voluto derubarli di un giorno di scuola? Un giorno val più del loro futuro? Ecco perché non era proprio possibile essere a scuola oggi.

Oggi si doveva disobbedire.

Perché è anche questo che abbiamo perso: la capacità di dire no. E di riconoscere in questo diritto e nel suo esercizio non qualcosa di cui vergognarsi, di cui scusarsi, o sentirsi in colpa.

Ma un valore da manifestare. Ad alta voce.  

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