Autore Redazione
sabato
3 Febbraio 2018
10:51
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Eventi - Piemonte

la purezza del dolore. Recensione di “Tre studi per una crocifissione” ad Asti

la purezza del dolore. Recensione di “Tre studi per una crocifissione” ad Asti

ASTI – Nell’inferno dei viventi talvolta non c’è nulla cui aggrapparsi che non sia inferno.

E’ quello che si sente senza alcun filtro in “Tre studi per una crocifissione”, presentato da Danio Manfredini, venerdì 2 febbraio allo Spazio Kor, di fronte ad un pubblico numerosissimo, per  la rassegna “Le sfide della Fede”, promossa dall’Istituto Oblati di San Giuseppe e dal Progetto Culturale della Diocesi di Asti, con la direzione del Teatro degli Acerbi.

Manfredini è un grande maestro di teatro; nel corso della sua carriera ha vinto tre Premi UBU (il massimo riconoscimento teatrale italiano) e un quarto premio UBU alla carriera. Di lui e della sua straordinaria intensità si è detto molto e così anche dei Tre studi, un trittico umano che prende spunto dall’omonimo trittico pittorico di Francis Bacon e riunisce tre quadri strazianti di umanità. In comune, tra le figure di un malato psichiatrico, un transessuale e uno straniero solo nella notte, una solitudine atavica, che pare risalire ad un’angoscia primordiale. E’ l’inferno dove si è pronti ad accettare ogni palliativo all’abisso, che si tratti di alcol o di interlocutori invisibili, e dove il destino è solo sofferenza.

Sul palco, Manfredini offre tali disperazioni senza schermature.  Nel primo quadro è un paziente in un ospedale psichiatrico. Il corpo è contratto, la voce riflette un dramma sofferto ma razionalmente inconsapevole, a tratti dipinto in modo ironico, come solo chi esce dai binari della comune logica può fare. E’ un trasalimento continuo, seguendo una mente distrutta, sino all’apice di tragicità nel gesto quotidiano del pranzo solitario e desolante. Pare scontato pensare che un attore riesca e debba entrare in più personaggi, in realtà è raro per lo spettatore scordarsi totalmente della finzione e provare emozioni così forti. Succede così di vedere un cambio di abiti a scena aperta e di entrare in un’altra vita, quella del transessuale Elvira, animata da un’altra voce, con una gestualità completamente diversa, femminile e scomposta nello strazio. Sempre lo stesso grido di solitudine e sempre un destino segnato e ai margini.

La disperazione è modulata in danza nel terzo momento, dove uno straniero, solo sotto un cielo metropolitano notturno e piovoso, tenta un colloquio con un passante, forse vero o forse uscito da un’allucinazione alcolica. L’emarginazione è danzata e dipinge un’ambientazione tetra, di pioggia e freddo dell’anima. Il crescendo non trova una liberazione, ma un’implosione di teatro danza sulla bellissima “A song for Europe” dei Roxy Music, cantata da Brian Ferry: “Pas d´aujourd´hui pour nous . Pour nous il n´y a rien à partager, sauf le passé”.

Capita spesso di commuoversi, di apprezzare l’intelligenza di quanto avviene sulla scena, capita di vedere interpreti bravi e più che bravi. Questa è un’altra cosa: è purezza straziante, è totale immedesimazione, è espressione cruda di umanità ed è il vertice massimo di verità cui può arrivare il teatro, strumento tanto più invisibile quanto più lo si sa padroneggiare.

In una parola: un capolavoro.

 

 

 

 

 

 

 

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