Autore Redazione
domenica
20 Gennaio 2019
06:30
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Cronaca - Alessandria

Il gusto del Monferrato: a tu per tu con Edoardo Raspelli. “Ecco cosa mi lega all’Alessandrino”

Il gusto del Monferrato: a tu per tu con Edoardo Raspelli. “Ecco cosa mi lega all’Alessandrino”

ALESSANDRIA Il gusto del Monferrato, nuovo format curato da Radio Gold, si propone di far conoscere le eccellenze enogastronomiche del territorio monferrino, una terra in cui storia, cultura e tradizione si uniscono e dialogano. Tale fusione dà vita a specialità note in ogni angolo del modo: dai Krumiri Rossi – i celebri biscotti apprezzati anche dai vip – agli agnolotti, passando per il fritto misto alla piemontese, la bagna càuda e il tartufo (protagonista indiscusso e ingrediente fondamentale per la preparazione di numerosi piatti). Seguitici, vi poteremo in un viaggio alla scoperta dei sapori del Monferrato, svelando – passo dopo passo – qualche piccolo segreto riguardante le ricette più amate e conosciute, abbinandole, talvolta, a un buon bicchiere di vino. Avrete, così, la possibilità di poterle replicare, aiutati dalle precise indicazioni di chef dalla straordinaria e indiscussa bravura. L’ospite d’onore de Il gusto del Monferrato è Edoardo Raspelli, giornalista, scrittore, conduttore televisivo, critico enogastronomico e «cronista del gusto», nato a Milano il 19 giugno 1949.

DOMANDA: Nel 1987 pubblicò, con Piemme Edizioni, il libro «Alta cucina. Ricette segrete dei grandi ristoranti d’Italia». Come entrò in contatto con questa casa editrice che, all’epoca, si trovava a Casale Monferrato?
RISPOSTA:
Allora ero consulente di un programma su Rai 2, «Che fai, mangi?»; si trattava di un quotidiano del mezzogiorno e parlava di consumi e di gastronomia con Anna Bartolini e Carla Urban. Mandavo, di volta in volta, un cuoco rinomato che preparava piatti di un certo tipo. Giovanni Minoli, responsabile del settore, un giorno mi chiamò al telefono e mi disse: «Raspelli, i cuochi grandi vanno benissimo. Ma perché non mi trovi qualcosa di curioso: un prete, una suora, un seminarista che cucina?». Telefonai all’arcivescovado di Milano a Monsignor Angelo Maio che, allora, era a capo dell’Ufficio Stampa. Essendo cronista, lo conoscevo. Contattai, nel frattempo, anche diversi preti. Gian Guido Folloni, direttore del quotidiano «Avvenire» (poi deputato e ministro), al corrente del progetto, mi disse: «Qui sulla mia scrivania ho un libricino che mi ha passato mia moglie, si intitola “Quando cucinano gli angeli”, di una certa suor Germana, ed è di Marietti». Chiamai, allora, Marietti, a Genova: «No, guardi; la nostra è la casa editrice Marietti ma quel libro, probabilmente, è stato pubblicato dal Dott. Pietro Marietti, fondatore della casa editrice Piemme, situata a Casale Monferrato». Contattai, quindi, Piemme, a Casale Monferrato, e chiesi di spedirmi il libro in questione. Mi recai da suor Germana a Torino, dove aveva creato il «Punto Familia». Qui teneva anche dei corsi di cucina. La intervistai, portando suor Germana in televisione. Le dedicai, inoltre, quattro pagine sulla «Domenica» del «Corriere». Quel libricino – «Quando cucinano gli angeli» – fece il boom editoriale. Questa storia è partita, in qualche modo, proprio da Casale Monferrato.

D: Cosa ricorda, con particolare affetto, dell’alessandrino?
R: Nel 1975 incominciai a occuparmi di enogastronomia. Mossi i primi passi in questo settore parlando di vini. A Milano i sommelier erano in via Cesare Correnti, 1. Il segretario dell’associazione sommelier si chiamava Franco Tommasi Marchi ed era amico con Bruno Volpi, un produttore di vino di Tortona. Finito il lavoro da cronista, andavo all’«A.I.S.» (L’associazione Italiana Sommelier, ndr) e bevevamo tutto quello che era possibile. Non da ubriaconi, bensì da tecnici! In particolare, degustavamo i vini tortonesi di Bruno Volpi. A febbraio del 1970 conobbi mia moglie. Anzi – pardon – conobbi la mia “ex fidanzata” (ride, ndr), che si chiama Clara Cortemiglia, come il paese delle nocciole piemontesi solo con una g in più (il paese si chiama infatti Cortemilia, ndr). È nata a Voghera, ma le sue origini sono tortonesi. Una semplice amicizia anticipò un lungo fidanzamento, iniziato nel 1971; ci sposammo poi nel ’79.

D: Ma la sua storia con il territorio non finisce qui.
R: Vero, dal ’71 al ’79, dove andavo mangiare quando non ero in giro per lavoro? A Tortona, al ristorante Derthona, che adesso non esiste più; al suo posto, infatti, c’è la banca. Oppure al Cavallino San Marziano. Si trovava vicino alla stazione e, a differenza del primo, esiste ancora. Sempre a Tortona, talvolta andavo a mangiare dall’Aurora Girarrosto. Ad Alessandria, invece, frequentavo spesso Il Grappolo di Sardi, la Fermata – in centro – e poi, più di recente, Agliachini, successivamente trasferitosi a Spinetta Marengo. Indimenticabile, sempre in provincia di Alessandria, il ristorante Lombardi. Ricordo che una volta andai a mangiare con la mia “ex fidanzata”: si presentò con un vestitino corto; le stava perfettamente, però la prima reazione fu: «Ma come ti vesti?! Ci sbattono fuori!».  

D: Qual è, secondo Lei, il piatto che descrive meglio il territorio?
R: Secondo me, il piatto più rappresentativo del territorio, e anche unico, è la agliata. Mia suocera la faceva soprattutto alla Vigilia di Natale.

D: Che cos’è?
R: È un piatto fatto di tagliatelle di farina bianca e acqua, senza uova, un po’ spesse e insaporite da una salsa agliata, cioè a base di aglio. Si tratta di mollica di pane ammollata nel latte e strizzata, noci spellate e tritate e aglio. Si frulla o si pesta il tutto, si prepara questa salsa grossolana dal sapore d’aglio che è una meraviglia.

D: Che vino ci abbinerebbe?
R: Ci si può sbizzarrire, con un vino bianco, come il Cortese o un bianco fermo. Oppure si può puntare sui colli del Monferrato, con un Barbera. È un piatto con una verdura, l’aglio. Però, essendo forte, anche un rosso ci sta bene.

D: Secondo Wikipedia, «ha stipulato […] una polizza su gusto e olfatto, assicurandoli per circa 500 mila euro». È vero o si tratta di una leggenda del web?
R: Sì, l’unico sbaglio è il “circa”. Sono 500 mila euro. Quindici anni fa stipulai questa polizza. Mantenerla mi costa un paio di migliaia di euro l’anno. Toccando ferro – con i tempi che corrono – spero non si riveli utile. Per me, infatti, perdere l’olfatto e il gusto sarebbe un disastro. Alcuni, dopo aver appreso questa notizia, mi contattarono immediatamente: «Ah, fortunato lei!» – dicevano.

D: Perché?
R: Perché c’è gente che ha perso la sensibilità gustativa e olfattiva per svariati motivi: da un’anestesia sbagliata o troppo forte dal dentista a un raffreddore mal curato. Ad ogni modo, spero di non riscuotere mai i 500 mila.

D: Quali sono state le principali tappe della Sua carriera giornalistica e quali i primi passi?
R:
Mio padre faceva il dirigente ospedaliero. Era un sindacalista. È stato il segretario nazionale del sindacato unico fascista degli ospedalieri. Divenne poi il segretario nazionale della Cisl. Era appassionato di scrittura, nonostante fosse un semplice ragioniere, con qualche anno di Economia e commercio alla Cattolica. Scriveva sui giornali. In particolare, scriveva per degli amici che erano i proprietari del quotidiano «Libertà» di Piacenza, uno dei più antichi giornali italiani. In cambio – io non credo che mio padre sia mai stato pagato – aveva gli accrediti stampa di Milan e Inter. Mio fratello andava a vedere tutte le partite dell’Inter, io – invece – quelle del Milan. Quando tornavo a casa, sul tram, mi mettevo lì, con il mio taccuino d’appunti, e facevo finta di fare il giornalista. Riuscivo, inoltre, a fine partita, a intrufolarmi negli spogliatoi. Intervistai Altafini, Rivera, Nereo Rocco: i calciatori e gli allenatori degli anni sessanta.

D: Dove fu pubblicato il suo primo articolo?
R: Il primo articolo l’ho scritto sul «Giornale Letterario», una pubblicazione letteraria curata dal mio padrino. Avevo recensito un libro di Corrado Alvaro, grande poeta calabrese. Scrissi successivamente sui giornali della mia scuola, tra i quali il «Parini Press», diretto dal mio compagno di banco, Cavalli Sforza, futuro scienziato. Poi trascorsi alcuni mesi in collegio. In quel periodo, scrivevo sul giornale del collegio Rotondi, situato a Gorla Minore, in provincia di Varese. Mio padre, scrivendo, aveva conosciuto Benedetti, direttore del giornale fascista «La scure». Il figlio di Benedetti, Claudio, era un importantissimo giornalista sportivo del «Corriere della Sera»; era il columnist dello scii. Quando Benedetti – direttore del giornale di cui sopra – scomparve, mio padre mandò due righe di condoglianze al figlio. Io all’epoca frequentavo la seconda liceo classico al Carducci, a Milano, dove mi sarei diplomato. Con la faccia tosta, andai da Claudio Benedetti, al «Corriere», e gli consegnai un articolo da leggere. Lo sport si trovava al piano terra. Vicino a Benedetti c’era Gianni De Felice, attuale editorialista de «Italia Oggi». Era il ’69 e avevo vent’anni.

D: Di cosa parlava l’articolo?
R: Della mia esperienza da giovane tennista.

D: Dove si allenava?
R: Al Centro Federale della Federazione Tennis di Pievepelago, in provincia di Modena, nel campo di fianco a un certo Adriano Panatta, che allora non era ancora conosciuto. Lui è nato nel 1950. Eravamo entrambi ragazzini. Benedetti mi disse, in merito all’articolo: «Purtroppo, non possiamo pubblicarlo sulle pagine sportive. Però il “Corriere della Sera” ha una pagina che si chiama “Tempo dei giovani”. Vai lì». La mattina dopo andai, con sfrontatezza, alla pagina «Tempo dei giovani». Era coordinata da un professore universitario, Mario Robertazzi; aveva lasciato il Politecnico per entrare al «Corriere». Il pezzo andò benissimo. Fu pubblicato come «Un lettore ci scrive». Avevo vent’anni appena compiuti. Per questa prima pubblicazione, non ricevetti alcun compenso. Il secondo articolo – sulle Classi di Neve dell’Università Cattolica di Milano – me lo pagarono 30 mila lire. Nel ’69! L’equivalente, oggi – più o meno –, di 800 euro. Continuai a scrivere. A pagamento, però.

D: Quanti anni aveva quando entrò al «Corriere della Sera»?
R: Il 26 luglio del ‘71’, a 22 anni appena compiuti, entrai al «Corriere della Sera», all’edizione del pomeriggio (Il «Corriere d’informazione», ndr) il cui direttore era Giovanni Spadolini. Mi ricordo la data esatta per due motivi: il primo perché era il mio primo giorno di lavoro; il secondo perché, alle sette e mezza di quel mattino, fui catapultato all’Università Cattolica, alla facoltà di Scienze Politiche, al piano terra. Il Preside, Gianfranco Miglio, sarebbe successivamente diventato senatore della Repubblica italiana. Simonetta Ferrero, neo-laureata di 28 anni, era stata massacrata con 33 coltellate. Questo è stato il mio primo giorno di lavoro, quando ancora non distinguevo un magistrato da un carabiniere. La seconda giornata, tragicamente indimenticabile a vita, fu il 17 maggio del ’72. Fui il primo giornalista ad arrivare in via Cherubini a Milano, dove Sofri, Bompressi e Pietrostefani – anche secondo la Corte di Cassazione – ammazzarono il Commissario di Polizia Luigi Calabrese. Come cronista, mi sono fatto tutti gli anni di Piombo di Milano.

D: Quando avvenne il passaggio dalla cronaca nera alla «cronaca del gusto»?
R: Nel ’75 ci fu la svolta. Recensivo l’unica guida che usciva allora, la «Guida Michelin». La recensivo, però, da cronista. Mi spiego meglio: la «Guida Michelin» adesso indica i ristoranti promossi – quelli che hanno ottenuto la stella, per intenderci – e fa l’elenco di quelli bocciati. Nel ’75, no. Avevano una paura matta. Mettevano solo i promossi. E io mi sono detto, da cronista: «Perché devono citare soltanto i promossi? E quelli bocciati, in cui la gente va lo stesso?».

D: Cosa decise di fare?
R:
Prendevo la «Guida» dell’anno prima e l’edizione appena uscita. Mi arrivavano al giornale oppure le comperavo. Le sfogliavo, pagina per pagina; ci mettevo un giorno intero e, alla fine di questo estenuante lavoro, facevo l’elenco dei promossi e dei bocciati, creando, così, un putiferio indescrivibile. Era uno scoop. Cesare Lanza mi fece chiamare e mi disse: «Vai nei ristoranti, mangi, paghi – poi ti rimborsiamo – e racconti come sono realmente». Lanza voleva, però, anche la parte negativa. Allora mi inventai il «faccino nero», un riquadrato posto in una posizione graficamente centrale, dedicato al ristorante «fetente» della settimana. La pagina in cui si situava era un insieme di schedine di ristoranti. Uscì la prima pagina, con tante schedine (nome, cognome, indirizzo, prezzi, specialità, un voto per la cucina e uno per il servizio) senza il «faccino nero» del ristorante «fetente». L’avevo inventato io – è vero – però avevo paura, nonostante il trascorso da cronista, in un periodo storico particolarmente critico.

D: Quale fu la reazione del direttore?
R: La mattina successiva, alle ore 6, ricevetti una telefonata. Alzai la cornetta e sentii: «Sono il direttore, perché non c’è il “faccino nero”? Tu devi fare il “faccino nero”, per due motivi: uno – e cambiò il tono della voce – perché te l’ho ordinato io, che sono il tuo direttore; poi, perché, così facendo, potresti diventare famoso, sennò rimarrai un giornalista qualunque». Da quel momento, «faccini neri» tutte le settimane del ristorante «fetente». Si trattava anche di ristoranti famosi, nei quali, però, il servizio era pessimo: nessuno, ai tempi, parlava male dei ristoranti, quindi succedeva di tutto: dai camerieri che si tagliavano le unghie davanti a te, a quelli che se le pulivano con lo stuzzicadenti, altri che bestemmiavano. E poi, ancora: dita nei piatti, tovaglioli sotto le ascelle e altre cose simili. Insomma, la situazione era intollerabile! Poi, pian pianino, scrissi sul «Corriere della Sera». Un giorno, però, stroncai il ristorante Rigolo di Largo Treves, accanto al giornale. Da quel momento, smisi di scrivere sul «Corriere della Sera». Rimasi, in veste di redattore, all’edizione del pomeriggio, continuando fino alla chiusura, nell’81.

D: E poi?
R: Lo stesso giorno che il «Corriere d’informazione» chiuse i battenti, mi contattò la concorrenza, il «Quotidiano della notte». Rimasi lì fino alla chiusura nell’84. Dallo stesso anno, scrivo sul quotidiano di Torino, «La Stampa». Fino a due anni fa c’ero anche agli «alberghi», l’unica rubrica critica sugli alberghi. Poi, purtroppo, per questione di spazio, gli alberghi sono stati tolti dal cartaceo. Continuo sul digitale, recensendo i ristoranti. Dirigo, inoltre, un magazine che porta il mio nome, «Raspelli Magazine». Si tratta di una pubblicazione digitale e gratuita. Esiste da più di un anno. È «autoreferenziale» e racconto gli eventi a cui partecipo.

D: E poi, la televisione…
R:
Cominciai con una consulenza su Rai 2. Condussi, poi, un programma di mezzogiorno sui consumi con Anna Bartolini e Carla Urban. Iniziai, poi, a collaborare con Rai 1: ero conduttore di uno spazio a «Piacere Rai 1», con Toto Cutugno, Simona Marchini e un giornalista Rai. Poi su Rete 4 condussi «Melaverde», prima come inviato, poi in veste di conduttore. In tutto, presi parte a 614 puntate.

D: Pensando, appunto, a «Melaverde», quali sono i ricordi ai quali è più legato?
R: C’è una cosa che, probabilmente, ricorderò per tutta la vita. Successe circa dieci anni fa, in Val Maira, in provincia di Cuneo. Conobbi due persone di una certa età che coltivavano il genepì. Si tratta del nome comune di diverse specie di piante aromatiche del genere «Artemisia». Da alcune di esse si ricava, per infusione e distillazione, il liquore omonimo. I due coniugi si dedicavano a questa produzione, raccogliendo tutto a mano. Gestivano anche un agriturismo e facevano questa meraviglia proprio come una volta.

D: Quali sono le condizioni che dovrebbero indurre o dissuadere il potenziale cliente a optare per un determinato ristorante?
R:
La cosa più importante è che vengano utilizzati i prodotti del territorio: i vini, i burri, i formaggi, l’olio, a seconda della località. Con questi, si faccia la cucina del territorio. Sono stufo di andare in giro e trovare menù che possono essere anche quelli di Acapulco o di Ankara. Sono a Cortina, desidero mangiare i piatti bellunesi; sono a Castrovillari, voglio mangiare i piatti calabresi. Inoltre, adoro il ristorante che non se la tira. Spero si possa tornare alle buone e semplici cose, fatte bene e con prodotti ricercati sul territorio e che i ristoranti la smettano di fare le costose cazzate per emozionare la gente, per «épater le bourgeois» – come dicono i francesi –, per scioccare i borghesi, gli «stupidotti». A casa, magari, mangiamo le cose comprate al supermercato – quelle buone, però! – ma fuori andiamo al ristorante e mangiamo, per esempio, un risotto allo zafferano, i «risi e bisi» e tutti gli altri piatti della tradizione.

D: «Terra, territorio e tradizione». Qual è la sua visione enogastronomica?
R: «Terra, territorio e tradizione» è una forma mentis e una forma di vita. Quando mia moglie si reca a fare la spesa (io, purtroppo, non la faccio mai, anche se mi piacerebbe moltissimo; non ho tempo, e poi comprerei tutto al supermercato) le dico: «Hai guardato le etichette? Da dove viene quella frutta? Da dove viene quel formaggio?». E mi accorgo di quante cose inutili importiamo. L’uva, anche in stagione, viene dalla Spagna o dal Marocco. Soprattutto in questo momento, quando l’agricoltura – così come tanti altri settori di casa nostra – langue, diciamoci una mano. Non è una battaglia fascista, come la battaglia del grano di Mussolini, per l’amor del cielo! Però è inutile che comperiamo il burro francese quando abbiamo dei grandi burri in casa nostra. Infine, «Terra, Territorio e Tradizione» è uno slogan che ho depositato alla Camera di Commercio di Milano vent’anni fa e che, ogni tanto, qualcuno mi rubacchia.

D: Quando recensisce un ristorante, cosa succede? I ristoratori sanno quando arriverà?
R: Di solito, prenoto telefonando sempre a nome falso. Siccome molti utilizzano il trasferimento di chiamata, dal telefono fisso al mobile (e così compare il mio recapito telefonico), chiedo a mia moglie di telefonare con il suo cellulare. In genere, riesco a non svelare la mia identità sino all’ultimo. Normalmente arrivo in pieno servizio. Quindi non è che possano fare i salti mortali. Consulto la carta dei vini, in formato cartaceo o tramite lo smartphone: quello che c’è, c’è. Se voglio indagare, capisco subito qual è quel vino che, presente sulla carta, non è in realtà disponibile. Andando a lavarmi le mani, controllo, inoltre, che i servizi igienici siano puliti.

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