Autore Redazione
venerdì
22 Marzo 2024
11:52
Condividi
Tempo Libero - Alessandria

Prima del patto sociale. Recensione di “Balasso fa Ruzante” al Teatro Alessandrino

Con "l’apocrifo del Ruzante", firmato da Natalino Balasso, ancora una volta teatro pieno e grande successo di pubblico per la Stagione di Prosa organizzata da Città di Alessandria e PdV
Prima del patto sociale. Recensione di “Balasso fa Ruzante” al Teatro Alessandrino

ALESSANDRIA – “Balasso fa Ruzante” è un titolo che offre una chiave di comprensione dello spettacolo, perché quel verbo fare contiene non solo l’interpretazione, ma anche il processo creativo. La commedia è stata presentata ieri, 21 marzo, al Teatro Alessandrino per la Stagione di Prosa organizzata da Città di Alessandria e Piemonte dal Vivo, con la partecipazione di ASM Costruire Insieme ed ha segnato un altro successo di un cartellone ben orchestrato.

Nell’incontro pomeridiano con gli spettatori a Palazzo Cuttica, Natalino Balasso ha definito il testo, di cui è autore, “un apocrifo del Ruzante”, al secolo Angelo Beolco, drammaturgo colto e attore cinquecentesco, che costruì e interpretò un personaggio villico, assumendone anche il nome. La commedia, con la regia di Marta Dalla Via, racconta, come recita il sottotitolo, di “Amori disperati in tempo di guerre”, cuce personaggi e situazioni ruzantiane in una lingua volgare cinquecentesca inzuppata di venetismi e ricca di esclamazioni e di parole chiave originali. “Non mi piacciono le commedie di Ruzante, mi piacciono i dialoghi”, ha raccontato Balasso, e sono i dialoghi a definire i personaggi di un triangolo fatto da lui, lei e l’altro, a diventare materia viva, passione e istinto di sopravvivenza.

Ruzante (Balasso), la Gnua (Marta Cortellazzo Wiel) e Menato (Andrea Collavino) sono un contadino, sua moglie e l’ex uomo di lei, che ancora la desidera e che non esita a ricorrere all’inganno per averla. Appartengono ad un mondo rurale ed istintivo, espresso da un linguaggio carnale e da similitudini animali (“vagavo come un manzo prima di te”); il loro amore non ha filtri, ma è impellente, come la necessità di sopravvivenza.

In una scena (di Roberto Di Fresco) dove, come dei giocattoli, una mucca/appendiabiti, una struttura mobile con staccionata, grano e papaveri, un elmo/scolapasta evocano una campagna primordiale e infantile, i protagonisti vivono rapporti semplici e sanguigni. Anche gli abiti (di Sonia Marianni) hanno un che di giocoso, con le loro fogge antiche tessute in tela jeans, tra l’altro coerente al contesto per le sue origini umili e legate al lavoro.  Lo stesso lavoro che colma, insieme alla soddisfazione dell’istinto, la vita di Gnua e Ruzante, legati dalle risate e dal desiderio reciproco, così come la personalità di Menato è tessuta di grossolana gelosia e di variopinte maledizioni nei confronti del pastore slavo con cui è fuggita la moglie Celestina.

I loro sono amori disperati, perché precari, investiti da eventi che li sconvolgono e mettono a repentaglio la sussistenza. Ruzante partirà per la guerra affidando, nella sua ingenuità, Gnua a Menato. Al suo ritorno, sfinito non tanto dai combattimenti quanto dalle fughe, li ritroverà non più in campagna, ma nella già commerciale Venezia, diversi e supponenti verso di lui, identico nella sua buona fede e nella sua rustica semplicità. Povero, cencioso e sconfitto, in un contesto di “amori disperati” non potrà che essere rifiutato da una donna che, pure, in altre condizioni, lo accoglierebbe.

Corposi, definiti e coloriti i caratteri dei protagonisti. Spicca per profondità la Gnua di Marta Cortellazzo Wiel,donna contesa, ma vigorosa”, sottomessa contadina cinquecentesca, ma capace di scelte dure per “la gran paura di morir di fame”. Il Menato di Andrea Collavino bilancia accessi di passione e ira con una scaltrezza che lo emancipa dal mondo elementare cui appartiene Ruzante/Balasso, che, da parte sua, rimane legato alla dimensione infantile di furbizia e ingenuità, di linguaggio grossolano e poesia ruspante.

In un ritmo sostenuto che scandisce mietitura del grano, grandi appetiti, gelosie e catastrofe della guerra, sono tanti i significati che emergono tra ilarità e malinconia. C’è il contrasto tra amore e opportunità, in questo caso necessità di sopravvivenza, c’è la subordinazione della donna, pur forte e determinata, all’uomo, c’è la natura umana nella sua nudità. Balasso, nel pomeriggio, ha citato il medico francese Laborit, secondo cui “il patto sociale è di non aggressione”. “Balasso fa Ruzante” appartiene ad uno stato primario, dove i patti sociali non possono convivere con un’istintività carnale, gioiosa, ma anche impietosa.

In questa elementarità, “la maschera tetragona”, semplice e ingorda di Ruzante svela una malinconia poetica (“proprio di un poeta dovevo innamorarmi”, dice Gnua), che permea un finale volutamente lasciato aperto. Balasso lascia una speranza, al contrario di Beolco, al suo Ruzante e ai suoi viscerali e sensuali versi che cantano del “corpo gioioso e santo” della sua donna. Uno spettacolo da vedere per la sua essenza di teatro popolare in senso alto, che rivela una ricerca colta e sa parlare alla parte più innata e cruda dello spettatore di ogni tempo.

“Balasso fa Ruzante” al Teatro Alessandrino è rientrato nel progetto di Audio Descrizioni per persone ipo e non vedenti frutto della collaborazione tra la Fondazione Piemonte dal Vivo e il Centro Diego Fabbri di Forlì con il suo progetto TEATRO NO LIMITS. Il servizio di audio descrizione dal vivo dagli attori del Teatro della Juta è stato reso disponibile agli spettatori e provarlo (ho avuto la fortuna di essere accompagnata dalla voce guida di Luca Zilovich per tutto lo spettacolo) fa vincere l’incredulità circa l’obiettivo di rendere il teatro accessibile a tutti.

Condividi