Autore Redazione
sabato
10 Dicembre 2022
11:41
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Cronaca - Valenza

Il non tempo dell’eternità. Recensione di Prometeo al Teatro Sociale di Valenza

Il mito rivive nei corpi e nelle voci dei giovani attori della Compagnia PEM, diretti da Gabriele Vacis
Il non tempo dell’eternità. Recensione di Prometeo al Teatro Sociale di Valenza

VALENZA – “André Gide diceva che niente nella letteratura è stato scritto di più bello del Prometeo di Eschilo”. Con questa premessa Gabriele Vacis ha iniziato ieri, venerdì 9 dicembre al Teatro Sociale, alla stagione APRE, diretta da Roberto Tarasco e organizzata dalla CMC/nidodiragno di Angelo Giacobbe, a raccontare Prometeo, interpretato dagli attori della compagnia PEM (Potenziali Evocati Multimediali). APRE continua oggi 10 dicembre alle 16 con la sezione Sabato Pomeriggio in Famiglia con “Un pupazzo di neve davvero generoso, lettura animata e laboratorio di Daniela Tusa.

L’allestimento di Prometeo dei PEM, la giovane compagnia stabile del Sociale, con la drammaturgia e la regia di Vacis, ha debuttato recentemente al Teatro Olimpico di Vicenza con un cast ridotto a causa del covid e quella di ieri è stata di fatto la prima messa in scena con tutti gli undici protagonisti. “Prometeo è ambientato nella Scizia, all’epoca di Eschilo (460 a.C.) ai confini del mondo”, spiega Vacis, “un non luogo e un non tempo, perché la tragedia è agita non da uomini ma da entità”. Si respira un sapore arcaico nei suoni, nei canti e nelle parole di dei e titani. Sono corpi e voci che si accordano in unisono, si dividono, si muovono in una danza primitiva, generano scontri e sfociano in violenza e sofferenza. Secondo il mito il titano Prometeo, originariamente schieratosi con gli dei vittoriosi contro i titani, dona agli uomini il fuoco contro la volontà di Zeus, intenzionato a lasciarli morire. Il fuoco è il principio della tecnologia e di tutte le arti, ovvero la conoscenza e il progresso, conquistati con la ribellione di chi già si era ribellato alla sua genìa. Incatenato ad una rupe da Efesto, l’immortale Prometeo sarà condannato dal re degli dei ad avere il fegato divorato ogni giorno da un’aquila per l’eternità.  Lo stile dei PEM, giovani in gran parte diplomati alla scuola del Teatro Stabile di Torino sotto la guida di Vacis, è inconfondibile. La loro messa in scena è corale e molto corporea, la scena nuda si popola di una gestualità che, insieme alla scenofonia di Tarasco, crea situazioni e scenografie, mentre tutto è introdotto e spiegato, come in una lectio, da Vacis, seduto al lato del palco. Prometeo è interpretato a turno da tre attori, gli stessi che diventano anche catene e roccia, in un unico quadro di sofferenza e orgoglio. La sua è una ribellione generazionale, un paradigma assoluto di sempre che suscita empatia. Eschilo, 2500 anni fa nell’epoca in cui si stava costruendo la democrazia, spiega Vacis, scriveva: “Zeus è un tiranno e la giustizia è di sua proprietà”, creando le basi del ragionamento sulle forme di governo. Il mito è qualcosa che va al di là dell’antichità, perché appartiene all’eterno, a quel non luogo e non tempo dell’archetipo che è immanente e si cala nel profondo dell’umano. Parla se rappresentato e, come un rito antico, si rinnova e suscita immedesimazione e comprensione interiore. Si illumina alla luce di collegamenti letterari e concreti, da “Pyncher Martin” di William Goldwin (quello de “Il signore delle mosche”) a un aneddoto accaduto a Vancouver nel 2016, quando si riscontrarono attività cerebrali in un uomo deceduto di 87 anni. Nel finale del romanzo di Goldwin il protagonista ha immaginato di vivere ancora per alcuni giorni, dopo essere annegato, così come le onde gamma del cervello dell’uomo di Vancouver hanno continuato a funzionare post mortem. Il mistero di quel lasso di eternità tra la vita e la morte appartiene al non tempo del mito, all’immortalità di Prometeo, alla sua grandezza nel dolore e, in sintesi, all’umanità. Le riflessioni si materializzano sulla scena in un movimento che non cessa e che ha la continuità delle onde. I protagonisti disegnano figure come in una danza che non imita in modo didascalico, ma evoca e prende la forma di coro delle Oceanine, di rito matrimoniale tribale, di tortura perenne, mentre si sente l’aria spezzata dalle ali (due bandiere che inquietano come un mostro) dell’enorme aquila.  E’ così che il mito rinnova la sua eternità e si incarna nella giovinezza e nella sua ribellione. “La tragedia greca celebra la libertà umana, perché permette all’uomo di combattere contro il destino”, conclude Vacis, e Prometeo, colui che vede avanti, sa che anche gli dei possono essere sconfitti e la sfida, come il mistero dell’eternità, sono connaturati all’uomo. Bravissimi i giovani attori di Vacis, capaci di emergere e di fondersi in un amalgama che pare una forza della natura. Dopo “Risveglio di primavera” e “Antigone”, un’altra conferma.

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