1 Dicembre 2019
12:22
Da Goldoni, agli anni ‘70, a noi. Recensione de “I due gemelli” a Valenza
VALENZA – Reinterpretare un classico significa rispettare la portata innovativa del testo originale, mediando con il diverso contesto culturale e l’inevitabile differente impatto in esso del linguaggio. In questo senso il libero adattamento di Natalino Balasso de “I due gemelli veneziani” per Progetto URT, in un’ambientazione anni ‘70, con tutte le contraddizioni del periodo che riflettono l’oggi, eccelle per intelligenza e ironia pungente. Una conferma del sodalizio con Jurij Ferrini nel nome di Goldoni, dopo il riuscito allestimento, in lingua italiana (con, in questo caso, la traduzione di Balasso), de “Le baruffe chiozzotte”. “I due gemelli” è andato in scena ieri, sabato 30 novembre, nel bel Teatro Sociale di Valenza, secondo appuntamento di prosa della stagione APRE diretta da Roberto Tarasco, che proseguirà venerdì 6 dicembre con “La parrucca” con Maria Amelia Monti. A sipario ancora chiuso, la voce di Balasso intima al pubblico (e lo fa con il suo stile inconfondibile tra paradosso e vena caustica) di non scandalizzarsi ipocritamente per i termini licenziosi, indispensabili alla credibilità del tutto e tali da riflettere la realtà. La storia, ripresa da Goldoni dai Menecmi di Plauto, dei due gemelli identici, che vengono scambiati e generano equivoci esilaranti, è mantenuta nella sua struttura originaria e modificata in alcuni particolari calzati al periodo. Zanetto, il gemello ingenuo e, in Goldoni, forgiato su una maschera della commedia dell’arte, è un cantante dai modi effeminati, alla ricerca di un matrimonio di facciata per rilanciare la sua immagine virile di fronte alle fan. Recatosi a Verona per sposare Rosaura, figlia del fallito chirurgo estetico Balanzoni, viene ripetutamente scambiato per il gemello Tonino, un criminale rude e fascinoso che ama, riamato, Beatrice.
Ferrini (anche regista) interpreta in modo esilarante sia Zanetto che Tonino, passando dai modi venati di brutalità al fare pavido, sempre dando voce e volto allo sconcerto di fronte all’assurdità dell’equivoco. Il carattere è comico e il pubblico ride tanto e sempre, come deve essere in una commedia goldoniana, mentre è avvolto in un magma di spunti che dipingono una società. Gli interrogativi dipinti su una parete di fondo (unica scenografia, di Eleonora Diana, insieme a panche continuamente spostate e ricomposte) sono quelli eterni (Chi sono? Cosa ci faccio qui? Perché?), come costanti sembrano gli aspetti di decadenza, conformismo, corruzione e inganno. Ci sono i figli dei fiori, debosciati epigoni di una protesta che vede, dal lato opposto, il terrorismo incombente, ci sono le organizzazioni criminali pronte a investire nei nuovi mercati (dall’edilizia alle nuove radio libere), c’è la piaga dell’evasione fiscale. E c’è la musica, quella di Ornella Vanoni e Alan Sorrenti, ma anche la vena nera di Jim Morrison. Su tutto ciò, il ritmo incontenibile delle situazioni paradossali che si susseguono, l’amore che infine trionfa (e non sempre come previsto da Goldoni) e, soprattutto, la bravura di un cast di attori giovani e bravi, impegnati in più ruoli. Spiccano le interpretazioni femminili: Maria Rita Lo Destro dà spessore ad una Rosaura credibile tra emancipazione, sentimento e devozione filiale, mentre Marta Zito si divide in modo efficace tra la passionale Beatrice e la Colombina-colombiana dalla parlata spagnoleggiante. Sette ottimi protagonisti (con Ferrini, in scena Francesco Gargiulo, Maria Rita Lo Destro, Federico Palumeri, Stefano Paradisi, Andrea Peron, Marta Zito) per molti più personaggi e una coerenza d’insieme che emerge, strizza l’occhio allo spettatore e lo coinvolge direttamente, diverte alle lacrime e non perde mai la sua intelligenza di fondo.