12 Gennaio 2015
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Baby sitter e giornalista di calcio nordico: la storia di Giuseppe, alessandrino in Olanda [FOTO]
L’AIA (OLANDA) – Fare le valigie e partire. Quanti i ragazzi che ci pensano continuamente, tentati di giocarsi le loro carte lontano dall’Italia, se il nostro paese non offre loro le opportunità per realizzarsi. Non tutti però hanno il coraggio di farlo veramente, come invece ha fatto Giuseppe Battaglia. 25enne di Castelletto Monferrato, da circa una settimana Giuseppe vive in Olanda. Il suo sogno è decisamente curioso ma affascinante: “sdoganare il calcio norvegese alle masse”. Giuseppe ha trovato ospitalità in una famiglia “orange”, per poi cominciare a collaborare col magazine on-line Voci di Sport. Giuseppe cura anche un blog, leavefast.wordpress.com (CLICCA QUI), dove racconta le sue giornate. – Come è nata la scelta di lasciare l’Italia e lavorare all’estero? Era una tua aspirazione o sei stato “costretto” a prendere questa decisione vista la mancanza di opportunità nel nostro paese? “Era da tempo che avevo deciso di lasciare l’Italia. In generale non mi sono mai sentito a mio agio ad Alessandria, città nella quale non ho purtroppo mai visto alcun tipo di iniziativa stimolante per il cervello. Dopo l’università, avevo bisogno di una cosa di respiro più ampio, un’esperienza diversa. Ovvio che la penuria di offerta di lavoro mi ha dato una grossa spinta in tal senso: ad Alessandria si trova pochissimo lavoro, per ottenerlo bisogna essere raccomandati (esperienza personale: anni fa portai un curriculum da Panorama, mi sorrisero e penso lo stracciarono. Due settimane dopo chiesi a un mio amico se poteva caldeggiare il mio nome e mi assunsero in tre giorni; raccomandato per fare il magazziniere, figuratevi) e in generale ci voglia uno stomaco di piombo per sottostare a determinate condizioni che mettono a repentaglio a volte anche la salute della persona. Ciò che mi ha spinto a partire è stata comunque la mia attitudine personale: volevo una nuova sfida e ho deciso di tentare l’esperienza da aupair: cambiare radicalmente e mettermi in gioco in un paese in cui non conosco persone, usanze, e lingua. Capire se so adattarmi o se finisco per eclissarmi”. – Dove vivi e come hai preso contatto con chi ti ospita?
“Vivo a Den haag, meglio conosciuta come L’Aia. Ho trovato la famiglia ospitante attraverso il portale aupair-world.it. CLICCA QUI Ho mandato la mia candidatura (non serve un cv, quanto una sorta di lettera motivazionale) e penso di averli incuriositi con ciò che ho scritto. Ho sentito la madre su Skype e si sono presi del tempo per decidere, poi mi hanno comunicato di avermi scelto.” – Qual è la tua “giornata tipo”?
“La mattina mi sveglio molto presto, intorno alle 7, per portare il figlio grande alla fermata del bus; quando parte sono libero di tornare a casa, dopodiché metto a posto le loro stanze e ho qualche ora per me. Poi, in base agli orari di uscita da scuola e asilo dei figli, sono libero. Quando escono da scuola devo prendermi cura di loro, farli giocare e fare delle passeggiate con loro: la cosa non mi pesa dato che ogni attività è volta a tenerli lontani dalla televisione, ed è esattamente ciò che vorrei per i miei eventuali figli (lo vedo quindi come una sorta di apprendistato. Tengo loro compagnia fino all’orario di cena, dopodiché, quando i genitori tornano da lavoro, sono libero di esplorare la città o di fare qualcosa per conto mio.” – Quali sono le differenze più marcate della società in cui vivi rispetto al nostro contesto? E gli eventuali punti in comune?
“Le differenze sono molte. Solitamente, in Italia ognuno tira dritto per la propria strada, mentre qui gli sconosciuti ti salutano se incrociano il tuo sguardo. C’è una grande tolleranza verso gli stranieri, tanto che tutti parlano inglese. L’unica cosa che sconsiglio è provare a parlare la loro lingua a patto che non siate estremamente pratici: se notano che incespicate su un vocabolo virano subito la conversazione sull’inglese, dato che qui tutti lo conoscono.” – Come sei stato accolto?
“Sono stato accolto alla grande. Per la famiglia sono il terzo aupair, dunque mi hanno accolto come se fossi sempre stato di casa. Teoricamente gli aupair cenano per conto loro, io, ad oggi, non ho mai cenato senza la famiglia (la madre è estremamente gentile e non è un problema per lei cucinare anche per me): io, in cambio, lavo i piatti anche se la cosa non rientrerebbe tra le mie mansioni perché questa famiglia sta facendo tanto per me, e voglio essere in grado di dar loro qualcosa in cambio con dei piccoli gesti quotidiani. Anche solo scambiare due chiacchiere o portare loro un cioccolatino li fa sorridere, e tanto mi basta. C’è affetto e l’atmosfera è esstremamente distesa. Anche se il figlio grande mi rimprovera di uscire tutte le sere, ma ciò dovuto al fatto che mi sono subito integrato con la popolazione: Den Haag è piena dei cosiddetti “expats”, persone che hanno deciso di fare esperienza all’estero. Fuori di casa è facile adattarsi: gli olandesi adorano gli italiani e, quando realizzano da dove vengo, è quasi comico vederli sorridere a trentadue denti e improvvisare un “buongiorno!”. – Consiglieresti la tua esperienza ai tuoi coetanei?
“Ni. Ni perché non è detto che tutti trovino una famiglia bella e stimolante come quella che ho trovato io (una ragazza che ho conosciuto in questi giorni sta avendo non pochi problemi con i bambini che deve curare). In linea di massima è un cambio radicale di abitudini, è un lavoro a tutti gli effetti e anche di grossa responsabilità, dato che due persone stanno affidando ad uno sconosciuto la vita dei propri figli. Va detto che, se interpretato nel giusto modo, è estremamente gratificante: i due bimbi mi hanno persino ringraziato per essere il loro aupair, quando dovrei essere io a ringraziarli per darmi i mezzi per fare questa esperienza che mi sta insegnando moltissime cose. Molto dipende dalla famiglia, dalle attitudini dei genitori e anche dalla mentalità del paese in cui si andrà ad abitare: l’Olanda è molto diversa dall’Italia e farsi prendere dalla cosiddetta “saudade” è estremamente facile, vuoi per le temperature o vuoi per le abitudini alimentari, dunque ci vuole testa. Ma se si vuole cambiare aria e si ha la fortuna di trovare una famiglia che creda veramente in questo tipo di esperienza, può essere un grande valore aggiunto. Non tanto per il curriculum, dato che a nessuno importa che una persona si sia presa cura di due bambini (nonostante sia un lavoro di estrema importanza), quanto perché plasma quella che mi piace chiamare “forma mentis”: se riesci ad adattarti simultaneamenete agli usi e costumi della famiglia e a quelli del paese in cui vivi (molto spesso differiscono per tanti motivi), molto probabilmente sarai in grado di cavartela in qualunque situazione.”