Autore Redazione
venerdì
21 Maggio 2021
05:21
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Community Gold - Alessandria

His house e quel realismo magico dell’orrore per sentire altro

His house e quel realismo magico dell’orrore per sentire altro

RADIOGOLD – Quando il fantasma non è nostro, quando lo spettro siamo noi. Con un’incredibile performance di Wunmi Mosaku e Sope Dirisu, His House, diretto dall’inglese Remi Weekes, è l’inquietante storia di una coppia di rifugiati del Sud Sudan, del loro passato e la loro nuova vita in una città d’oltremanica. Premiato come miglior film d’esordio ai BAFTA Awards, è ad oggi disponibile su Netflix.

A Bol, appena svegliatosi da un terribile incubo sul suo viaggio verso l’Inghilterra, e la sua compagna Rial, viene assegnata una dimessa e angusta casa in periferia: così si apre questa vicenda piena di dolore, apparizioni maligne dal passato, integrazione e alienazione. Guardati con diffidenza e sospetto dagli altri cittadini, trattati con un’estrema freddezza, sottoposti a regole deumanizzanti ed esposti a norme sociali completamente diverse dalle loro, i due cominciano a reagire in modi completamente opposti. Mentre Bol cerca di adattarsi alla vita inglese, inneggiando alla squadra preferita coi tifosi al pub, cominciando a mangiare con le posate e comprando vestiti “all’occidentale”, per cercare di iniziare da capo, fuggire quei terribili ricordi che lo perseguitano e mostrare al centro di accoglienza che si sta assimilando appieno; Rial cerca di mantenere vivo il rapporto con le sue radici, cercando di non tradirsi per questo nuovo mondo, che non le appartiene. Con sé ha ancora l’ultimo ricordo di sua figlia, un braccialetto.

Ed è proprio la figlia ad apparire di notte come spirito, insieme a una presenza oscura che li ha seguiti dall’Africa, un apeth (una figura mitologica dei Dinka, comparabile ad uno stregone notturno vendicativo. Per approfondimenti consigliamo gli studi dell’antropologo Godfrey Lienhardt). Toccando temi di grande attualità senza risultare banale o accondiscendente, questo lungometraggio ci restituisce una vivida e terrificante allegoria del vissuto del rifugiato, che, grazie al medium dell’horror, ci fa immedesimare in lui, in tutte le sue paure, speranze, debolezze. Ed è proprio il sentimento che guida la pellicola, un film umano che risulta efficace perché tale, guidandoci in uno spaccato del presente che potrebbe benissimo essere adattato a qualunque epoca, qualunque luogo.

Questo grazie alla qualità della sceneggiatura, scenografie e sequenze di un’incredibile eloquenza e bellezza, un’atmosfera mitica che cozza perfettamente, volutamente con il mesto e demistificato paesino britannico, il richiamo a topoi della grande letteratura e cinematografia gotica, come il fantasma, che lega le scene e i temi del film: una vita che non è più ma che ci appartiene ancora, una cultura che è nostra ma dev’essere nascosta, una persona cara che è mancata senza che noi la volessimo lasciare, la nostalgia, il rimorso che attanaglia le nostre viscere, la minaccia di un altro che torna per ricordarci che, nella sua assenza, la casa che abitiamo non è nostra, ma la sua.

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