Autore Redazione
martedì
24 Marzo 2020
01:24
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Cronaca - Alessandria

Don Stefano: “L’ultimo ricordo è la corsa dell’ambulanza, poi l’abbraccio a una lapide”

Don Stefano, il cappellano dell'ospedale, racconta lo strazio di chi non può nemmeno essere di conforto per i parenti colpiti da coronavirus
Don Stefano: “L’ultimo ricordo è la corsa dell’ambulanza, poi l’abbraccio a una lapide”

ALESSANDRIA – L’immagine dei parenti che perdono una persona cara per colpa del coronovirus è questa: quella di una ambulanza che si allontana. Don Stefano Tessaglia, cappellano dell’ospedale di Alessandria, usa un’immagine forte e cruda che però identifica perfettamente il tempo che stiamo vivendo. Lui è la persona che conforta i pazienti e i familiari e oggi rappresenta uno dei pochi legami tra chi è dentro la struttura e l’esterno. In questi giorni il suo ruolo è ancora più difficile. “Ho parlato con una dozzina di famiglie – spiega – e ho provato a usare parole di conforto anche se in questi casi la parola giusta non ci sia mai“.

Il dramma grosso è che chi ha un parente ricoverato con il coronavirus è poi lui stesso in quarantena e quindi non si può muovere“. “Un dramma impensabile” perché quel che rimane è un distacco traumatico con un’ambulanza da cui escono persone in tuta che sembrano alieni e per contrastare quel ricordo si dovrà faticare con la memoria per trovare l’ultimo abbraccio vero. “Spesso c’è il rischio concreto che i parenti possano avvicinarsi a chi è deceduto solo in cimitero, davanti a una lapide“.

“La moglie di un signore in rianimazione, per esempio, – spiega ancora don Stefano – era affranta perché voleva venire a pregare per il marito ma anche lei è in quarantena. L’ho confortata spiegandole che lo avrei fatto io ma è chiaro che è una situazione dolorosa”. A mitigare questo scenario la presenza di “persone preparate che umanamente sono splendide” con don Stefano che va “dove serve“. “Con i pazienti un po’ più gravi – continua – si può solo andare dietro al vetro, stando nel corridoio, a distanza“. “Quasi tutti sono disperati perché è una situazione che sfugge al controllo, improvvisa, non si è padroni più di nulla, nemmeno degli affetti più cari“.

E in mezzo a tutto questo c’è anche la fatica del personale sanitario che “rinuncia ai riposi, si dedica con grande cuore ai pazienti”. Un contributo preziosissimo che, nonostante il lavoro si faccia ogni giorno più duro fa emergere “la caratura umana di queste persone, sebbene anche loro abbiano bisogno di conforto, magari anche solo un ‘ciao’ da lontano“.

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